31 dicembre 2010

La fine

Mi sono svegliato dopo poche ore di sonno con gli occhi fissi sul soffitto. Una malinconia ancestrale mi si è piantata nel cuore con un morso feroce, alimentato non dalla rabbia, ma dalla paura. Il mio corpo giaceva sotto uno stato di ipnosi e di paralisi fisica. Un unico pensiero girava in loop nella mia mente: era un rifiuto della realtà. Un rifiuto totale, assoluto, da fine del mondo, non da fine dell'anno.
La vita è ciclica, è nel suo essere: morire e rinascere. All'inverno segue sempre la primavera. Ma uno stesso essere non sopravvive mai a se stesso. Per saperlo fare bisogna essere uno di quelli che ti fa gli auguri di buon anno. Pensando che lo scoccare della mezzanotte possa davvero segnare uno spartiacque, cambiando un'esistenza che si trascina senza più nemmeno dignità. Non leggo più, non scrivo quasi più, mi limito a percepirmi e a detestarmi per le illusioni in cui ho creduto, ma ancor più per quelle in cui ancora spero. Forse solo l'amore è quella droga in grado di regalarti la parvenza dell'infinito. Due destini che si uniscono per sempre, anche dopo le loro stesse esistenze. Ciò funziona solo se si ha amato una volta sola nella vita. Già dalla seconda, non esiste più nulla.

30 dicembre 2010

la cuccia

Guaio in questi giorni se l'è passata un po' male la sera. La routine natalizia sta avendo qualche strascico pericoloso nelle mie serate alcoliche. Il freddo la sera si sta facendo di nuovo pungente, e ore che mi trovo a casa dei miei con giardino e compagnia bella, Guaio se la passa alla ghiacciaia mentre io bagordo in giro. Il patto è che lui sopporta la sera e io mi sdebito con un bagno di due ore al mare (pure con sto cazzo di freddo) nel pomeriggio.
Così ieri, per appianare i miei sensi di colpa da padre irresponsabile, gli ho comperato una cuccia in legno. L'ho parcheggiata giusto fuori la porta di casa. Domani dovrei mettergli il cartello con il suo nome sopra. Mentre la montavo mia madre mi scrutava tra l'incuriosito e l'inquisitore. Stavo invadendo uno spazio del suo territorio, e la cosa sembrava infastidirla. Poter mettere la cuccia del piccolo è stata una concessione, non un trionfo. Guaio ha subito gradito, l'ha pure personalizzata mordendo la porta d'ingresso. Wild la vuole. Dall'altro lato sembrava chiedersi perchè dessi segni di sedentarietà quando non riesco a stare fermo più di tanto da nessuna parte. Soprattutto nella casa al mare dei miei. Questo aspetto della faccenda mi ha intimorito alquanto, aprendo una voragine con un grosso punto interrogativo, puntato dritto verso il domani. L'unica cosa che potevo pensare era "devo andarmene, andare avanti con la merda di romanzo che sto scrivendo (e che non avrà mai l'onore d'essere pubblicato), ma soprattutto trovarmi un lavoro". Sto bighellonando come un rassegnato. Un condannato ad una pena che si sconterà si spera tra molto tempo, ma il cui timore ha già impatti sul presente.
Sta sera ho cenato con amici. Dovevo reagire. Fare cose normalmente mi fa sentire una persona meno frustrata. In più ho tempo da perdere. Gioia ci ha messo 36 ore a rispondere al mio messaggio. Sto cercando di maturare una risposta che arrivi direttamente al dunque: vederci. In realtà è infantile il modo con cui uso questo principio di quella che ha tutte le carte in regola per essere una storia d'amore da quattro soldi per occuparmi il tempo. Soprattutto quando guido. Il profilo greco di Gioia mi ossessiona costruendoci attorno tutto un contorno di forme. È il pensiero del guidatore solitario.
La cena è stata tutta a base di tartufo, giusto per livellare ulteriormente le entrate finanziarie natalizie. I ragazzi continuavano a parlare da intenditori culinari delle proprietà dei migliori tartufi bianchi d'Alba. In realtà non me ne fregava un cazzo di cosa si stesse parlando. L'unica cosa che mi salvava era stare la, mangiando e bevendo come un processo di socializzazione meccanico. Solo quando, sulla finestra, mi sono fumato una sigaretta, ho capito che era tutto regolare, che c'era l'assenza di sofferenza, comunemente definità felicità. Le chiacchiere di sottofondo mi hanno riportato a quando ero bambino,  il soggiorno pieno di rumori e di gente, e io in un angolo a giocare con le macchinine. Ora ammazzerei metà della gente di quei bei ricordi, ma ho sorriso, perchè per quel bambino li quei ricordi sono felici.
Sta sera scrivo a Gioia, mi sono convinto. Glielo devo far capire che non si può sprecare vita in tributi alla gente. Anche perchè è tutto così noioso sennò. È tutto così terribilmente piatto da assumere le sembianze di una tortura a lungo andare. E più vado in questa direzione, e più desidero con tutto il cuore che qualcuno mi regali una cuccia di legno, dove potermi mettere dentro nelle fredde sere di solitudine, per scaldarmi un po' il cuore. 

26 dicembre 2010

abbuffata

Ho conosciuto Lara per caso. Qualcuno ha cercato di accorciare la mia vita spaccando la vetrata della biblioteca dove ogni tanto vado in cerca di un po' di conentrazione. Ricordo solo le mie urla smorzate che offendevano più per la qualità delle parole che per il tono della voce. Volevo che quella mandria di ubriaconi se ne andasse presto con quelle trombette da ultras repressi che non aspettano altro che la domenica per sfogare istinti selvaggi. Poi il vetro che viene giù, e Lara che mi chiede se sto bene.
L'avevo notata più per la sua amica che per la sua appariscenza. Le ho parlato perchè forse mi avrebbe potuto condurre a quegli occhi che prima, per qualche mezz'ora, m'hanno fatto capire perchè mi trovavo li in quel momento.
La mia socievolezza è uno strumento a doppio taglio: da un lato concordo per una cena con lei e la sua amica, di cui scopro il nome arrampicandomi su appigli, dall'altro sento inevitabile ferire Lara. Le ho fatto credere che le mie attenzioni siano rivolte a lei invece sono per Gioia, e solo per Gioia.
L'indomani porto un amico a cena, devo reggere lo scontro con parità numeriche. Devo complessificare il gioco per essere certo di rubare attimi di conversazione a Gioia, sguardi, qualsiasi cosa mi faccia credere ci sia un senso per essere seduto a quel tavolo. Il mio amico ingurgita cibo e vino, tutti fanno lo stesso con una meccanicità quasi androide. Percepisco impacciato ogni mio gesto consuetudinario, il solo cibarmi mi fa percepire come sgraziato, smodato, scassato, di troppo. Gioia mi osserva a tratti, lo stomaco si chiude e il vino è l'unico a riuscire a vincere l'assesio al mio stomaco. Il resto lo racconta l'alcool. Le chiacchiere di politica, di società, di letteratura, di microbiologia, di tutto quello che di inutile c'è nella vita, si sono snocciolate mentre io facevo il tifo per me. Come in un arringa da tribunale sentivo di difendere un cliente colpevole, o quantomeno estraneo ai fatti. Il gioco della seduzione sa divenire così penoso a volte, che se solo quel profilo greco non fosse stato li a sfidarmi, mi sarei chiuso in me stesso fino a sparire nel nulla.
Al momento del conto prendo Gioia per un braccio e la tiro verso la bici. Do al mio amico istruzioni per portare Lara a casa mia, senza fretta, e di cercare di "tenerle compagnia". Gioia intuisce questo scacco alla situazione, ma fa gran poco per fermare il mio piano.
"Ancora un minuto di finzione e muoio davanti ai tuoi occhi" le ho detto con charm alcolico.
Gioia sale sul manubrio della bici e non fiata. S'è trasformata in spettatore inerme di fronte a quello che potrebbe, senza eccesivi problemi, essere il più terribile dei carnefici: io. Pedalo in bilico, alitandole sul collo la fatica della salita. Poi il fiato si fa tocco, e poi bacio. Chiudo gli occhi senza curarmi degli ostacoli, della vita. Tutto sta in quell'odore che mi sta salvando da me stesso. Sono un umano su una bici in un pianeta di extraterrestri, la rivincita per i fan alieni di Steven Spielberg. Gioia si stringe sul collo premendomi in un guancia a guancia.
"Non posso" dice poi secca. "Lara non me lo perdonerebbe".
E l'inferno è tornato attorno a me, in un lampo, dopo una tregua così breve da far solo presagire ciò che normalmente si intende per vita. L'incubo si sussegue in tutti i convenevoli da quel momento ai saluti. Lara fugge il mio sguardo. Ma io penso solo a non isolarmi troppo dal presente. Se solo la gente sapesse con quanta facilità si può trasformare un inferno in paradiso (e viceversa) non userebbe più negazioni nella propria vita. Appena se n'è andata ho percepito densa la situazione con il mio amico. Mi solo limitato a sopportarmi nuovamente in questo rumore assordante che è la solitudine.

24 dicembre 2010

Tanti Auguri Gesù Cristo

Finalmente è arrivato Natale. Dico finalmente non perchè lo stessi aspettando con ansia, voglio solo che passi presto, subito. La fantasmagorica storia di Gesù Cristo vale solo fino ai 10 anni, momento in cui si dovrebbe smettere di credere tanto a Superman quanto a tutti quei finti supereroi che trasformano la realtà in qualcosa di spettacolare. Uno è finito in sedia a rotelle, l'altro su una croce.
Mancano ancora poche ore, e il delirio consumista sta vivendo in questi momenti una cristallizzazione senza precedenti. Carte di credito sventolate in aria come se fossero vangeli, pacchi regali come fossero scuse, o miracoli. Come possa una società perdurare nell'errore dipingendo con tonalità cromatiche rosso-bianche la più grande delle ipocrisie è indigeribile, come la cena che tra poco mangerò tra sconosciuti che fingono, con sforzo sovraumano, d'essere un distillato di felicità, altruismo e sacralità.
C'ho messo più di due ore a fare la strada che normalmente percorro in poco meno di una. Tutti con il piede pronto sul freno, sempre in concomittanza con un negozio illuminato, con un'illusione pronta per l'uso. La chiesa dispensa le sue migliori parole, dalla radio, dalla televisione, dal pulpito di quelle chiese gremite solo in questa notte, in cui tutti ancora una volta decidono di mandare avanti questa farsa tra strette di mano nascoste tra i banchi di legno di mogano.
Alla cena io porto il vino, ho scelto io questo compito, solo perchè volevo essere certo non mancasse, non finisse nel momento più delicato, quello in cui ci si scambierà i regali. Non ne ho fatto nessuno, a nessuno, avrò solo una faccia perplessa, un sorriso codardo, e mani vuote da offrire in cambio di oggetti, pacchetti e fiocchetti. Gli occhi giudici saranno il mio martirio, i miei occhi chiederanno solamente pietà.
Mi sento perennemente come se fossi su un marciapiede di una città affollata. Li impalato sotto un lampione a fumare sigarette, mentre osservo un tavolo di ristorante pieno di luci e sorrisi. Vorrei toccarlo, ma il vetro di mezzo divide chi come me sta sotto lo zero, e chi dentro si aggira in camicia scollata, cravatta rossa e cappellino in testa.
È una prigione di preconcetti, di solitudini celate, di ipocrisia servita ad ogni portata, dall'antipasto al dessert, passando per quel caviale che nessuno si può permettere, ma che abbonda in ogni tavola italiana che si rispetti. Creanza: è una farsa, un muro amuffito ridipinto di bianco, è un giocattolo cinese di bassa fattura, un "piacere di conoscerti" quando non c'è piacere. Muoio tra le urla di mia madre isterica che mi informa che è già tardi. Ma un condannato ha tutto il diritto di prolungare la sua agonia se quello che troverà fuori dalla cella è solo la morte.
È il compleanno di un uomo morto, di un'idea morta che vive solo nei bei discorsi trasmessi alle 10 di mattina su rai uno, un'idea morta che rieccheggia nelle pantofole di ermellino portate ai piedi da chi si ostina a sostenere d'avere un telefono rosso in collegamento diretto con Dio. Se Gesù Cristo fosse qui in questo momento cagherebbe in testa a tutti i cristiani, dopo averli presi per le orecchie uno per uno, urlandogli addosso quanto sia stato frainteso. Caro Gesù, mettiti in fila, perchè come te, il mondo è pieno di incompresi, pure meno ciarlatani.
Babbo Natale, in arte Coca Cola Man, ha già il Chayenne turbo diesel da 500 renne che si scalda in garage, è tutto pronto, il GPS ha tracciato la rotta dopo essere stata impostata su: strada a percorrenza rapida, fermata solo in case con camino e 740 a 6 cifre, evitare il sud del mondo per il pericolo del triangolo delle Bermuda. Il sindacalista degli elfi ha firmato un contratto con il nostro presidente del consiglio, 500 euro al mese senza contributi. La tredicesima non conta per chi vive in lapponia dove è dicembre tutto l'anno.
Buon Vaffanculo Natale a tutti.

15 dicembre 2010

il topo



Gli ultimi due mesi, se non fosse per l'intensificarsi del freddo, mi sembrano essere stati un giorno solo. Un giorno che si ripete in continuazione come un brutto sogno dal quale si cerca disperatamente di uscirne, svegliandosi. Mi sembrava d'essere il protagonista del film Ricomincio da capo con Bill Murray (rifatto uguale da Albanese nel film È già ieri). Ogni mattina la stessa sensazione di chi si sente perso in un labirinto, di chi con coraggio e ostinazione e ferocia decide di uscire dal letto per dare un'altra possibilità a questo mondo infame, un mondo in cui non trovo posto.
L'unica cosa che mi tiene attaccato alla realtà, la mia realtà, sono le letture che fagocito voracemente. In quei libri vedo ciò che sono il mio mondo, mi sento sicuro, tranquillo, compreso. Il mondo che si trova fuori dalla porta di casa invece non lo capisco più. Quello che prima era per me il più grande parco giochi che avessi mai visto ha iniziato a trasformarsi in un parco degli orrori. Prima era indifferenza, poi diffidenza, ora mi ci trovo immerso dentro come una prigione. Diana diceva di sentirsi come un topo dentro una scatola di cartone, la cui esistenza è perennemente tormentata dal grosso dito di un umano che con curiosità stuzzica il topo senza scampo. Credo la sua metafora renda l'idea benissimo da non dovermi costringere a cercare altre parole. Il mondo mi assedia fuori da queste mura, mi insulta, mi demoralizza, e man mano che i miei occhi si fanno più precisi definisco sfumature dai caratteri raccapriccianti.
Tra poco dovrò uscire, la città si prepara al fottuto natale, con le luci, i mercatini, i manifesti colorati per la città che urlano come un gruppo di studenti ubriachi: sei quello che hai. E tutti, ripeto, tutti, sono così fottutamente tranquilli.

14 dicembre 2010

2 Euro

Stavo passando da un libro ad un altro. Da Schopenhauer a Mordecai Richler, da Orwell a Pavese. Cercavo senza sosta un appiglio, un qualcosa che mi tenesse a galla in quel divano che fagocitava il mio essere. Sono sempre sul punto di gettarmi in strada per disperazione, ma ogni volta che varco quella soglia mi ricordo perchè sto rifiutando il mondo.
Mi chiama un amico una volta. Non rispondo. Richiama dopo qualche minuto. Rispondo dopo  una decina di squilli durante i quali mi chiedevo cosa ci fosse di tanto urgente.
"Ci stiamo trovando a bere una cosa in centro, vieni?"
"No grazie preferisco stare a casa, ho un sacco di cose da fare" mento.
Mezz'ora dopo sono in piazza con una birra in mano. Gli amici s'erano dati da fare, avevano chiamato molta più gente di quanta m'aspettassi. Hanno deciso di fare una cena itinerante. Ogni bar una birra e uno stuzzichino. Riesco a resistere perchè ad ogni spostamento la fuga dalle chiacchiere inutili è più facile. Le birre si decuplicano e la mia socievolezza si trasforma in una sorta di cinismo tale da rendere gli altri refrattari al mio umore. Prima li evitavo io, ora sono loro impauriti da me.
Ad un certo punto, mentre me ne sto da solo a ordinare l'ennesima birra, mi si avvicina una ragazza. Era l'amica di un'amica uscita con noi per via di un amico.
"Che fai qui tutto solo?" chiede.
"Mi diverto a parlare con il bancone del bar"
"È interessante?"
"Se fosse interessante mi sarei messo un bancone da bar a casa. È simpatico".
"Ti posso offrire una birra?"
"Come hai detto che ti chiami?"
"Non te l'ho detto, mi chiamo Roberta".
Sforzo un sorriso per essere sincero di riscattare la mia birra, poi traballo a causa di quelle già bevute. L'occhio mi cade prima nella sua scollatura, lei mi fissa e io abbasso lo sguardo. Mi stupisco nel vedere sul pavimento una moneta da 2 euro. Mi abbasso cercando di mantenermi in equilibrio, raccolgo la moneta e la poso sul bancone.
"Hai visto? Questa è la fortuna".
Lei sorride senza dire nulla. In quel momento passa la barista, si avvicina a noi, ci scruta e si accorge dei due euro appoggiati sopra al bancone.
"Di chi sono?" chiede sperando siano una mancia.
"Sono nostri" rispondo io biascicando, ma tra la confusione deve aver capito "non sono nostri" perchè subito li raccoglie e senza che io riesca davvero ad intervenire lei li mette nella cassa delle mance. Roberta mi guarda e ride con uno sfottò che non gradisco.
"La vita è così, ti arriva una sorpresa, e subito si rivela essere una fregatura" dico sommesso.
"Non essere tragico" mi incoraggia lei. "Poi il mio oroscopo dice che oggi avrei conosciuto qualcuno di interessante, magari sei proprio tu".
"Io non credo all'oroscopo" sentenzio.
"Io si, quello di Vanity Fair ci azzecca".
"Ti piace Vanity Fair?"
"Lo adoro".
"Ecco appunto, la vita è proprio così, ti arriva una sorpresa, e subito si rivela essere una fregatura".

10 dicembre 2010

punk

Come al solito sono indietro con i miei progetti. Perdo troppo tempo nel mio mondo che mi accorgo della realtà solo quando bussano alla porta.
"Dobbiamo trovarci per quell'incontro. Dobbiamo preparare il materiale"
"Quando scusa?"
"Oggi, alle 14. Cazzo non ti ricordi, l'hai pure organizzato tu!"
Trampoleggio tra scuse momentanee e faccio mente locale. Ok, il mio pomeriggio sarà caratterizzato da nubi di fumo sparse, chiacchiere inutili e precipitazioni di imprecazioni. Pianura in Padania. Guaio mi guarda con la pallina in bocca. Con sta cazzo di pioggia incessante preferirei di più portare fuori lui piuttosto che vedermi con il gruppo di lavoro.
La vita di un puntuale è un inferno di immeritate attese (diceva un saggio). La panchina di marmo sotto il culo mi stava gelando le chiappe. La seconda sigaretta di fila stava terminando il che mi dava da pensare che l'unico fesso ad essere arrivato puntuale ero io. Lasciamo perdere. Quando la fottuta compagnia dell'anello s'è finalmente riunita con tutti i convenevoli, si opta per anare a discutere in un bar. Perlomeno le vie di fuga sono multiple, penso.
Inizia Alba con le sue paturnie e sottigliezze a rompere il ghiaccio. Quattro estranei messi ad un tavolo di un bar per organizzare un progetto non è proprio il massimo della serietà, ma considerando l'apporto che posso dare io, sono certamente caduti peggio loro. Era Marisa quella che in realtà stava rendendo piacevole la mia permanenza nel club del "non centriamo un cazzo l'uno con l'altro". Un tipico caratterino del sud, tutto pepe e quel po' di malizia e intelligenza che prontamente si manifestava con la giusta espressione nel viso. Ad ogni cazzata volava un ghigno, ad ogni mia battuta una risata. Visto che solitamente accade il contrario, posso già considerarla nelle mie grazie per essere l'unico pubblico non pagante a cui piace la mia performance del giorno. Ha il culo un po' largo in realtà, ma visto che le modelle ultimamente non arrivano a toccare le lenzuola del mio letto che già mi sono stufato di starle a sentire, non mi posso lamentare. E poi diciamocelo: il culo piace bello rotondo. Non mi sono mai fidato di quelli che le vogliono magro-rivista. Non capisco mai se siano troppo proiettati nel futuro e perciò impauriti di risvegliarsi un giorno con una balena nel letto (ma così caro mio ti fai troppe paranaie, e non ti godi il morbido presente); oppure se sia la fobia di ritrovarsi tra le mani una tipa con troppo carattere (perchè avere culo da carattere), e perciò deviano su qualcuna fisicamente meno prestante che non lo meni per le cazzate da Men's Health che dice.
Ma il non plus ultra della gamma dei presenti era lui, il punkettone di turno. Era perennemente astratto al di sopra delle chiacchiere di Alba sul perchè gli asili nido oggi si debbano chiamare scuole d'infanzia. Ascoltava la musica di sottofondo che diffondevano due piccole casse sul soffitto del bar. Canticchiava incompreso il motivetto del momento mandato on air da quella che mi sembrava essere Radio Deejay (o Radio Maria, che come dice Luttazzi è la stessa cosa). Elenco delle cose da punk che indossava: maglietta nera con scritta bianca "I LOVE PUNK"; giubbetto in Jeans senza maniche indossato sopra piumino Skinhead con catene che fuoriusciavano dalle tasche; capello all'insù alla Elvis; quattro fascette ai polsi degli ultimi rave party della stagione autunnale; stivalozzo imponente (ma non troppo perchè sennò poi mamma si lamenta); Jeans largocci sui fianchi che driblavano su un culo enorme (all'uomo però il culo non glielo si perdona eh).
C'è stato solo un breve scambio di battute tra me e lui, verso la fine dell'incontro, quando ormai aveva deciso tutto Alba con un mio assenso quando mi è stato offerto il bassissimo, umilissimo e accettabilissimo lavoro di scriba.
"Un negroni" ordina di sfuggita al barista di passaggio.
"Ma sono le due del pomeriggio" rimprovera Alba.
"Portane due" gli faccio eco puntando su un falso gesto di solidarietà. In fondo se potevo dare fastidio in qualche modo alla pedanteria di Alba mi sarei fatto baciare da uno scimpanzé.
Marisa ride. E brava Marisa. Vuoi venire a casa mia domani Marisa? Voglio che non ti senta male se ti ho guardato il culo prima mentre camminavi Marisa. Voglio che tu sappia che lo guardavo perchè mi piace, il tuo culo, Marisa.
Preso da una confidenza improvvisa, rompendo il mio flusso erotico nei confronti di Marisa, il punk inizia a parlarmi dell'ultimo film horror che è andato a vedere. Dice che è una bomba, che persino la sua ragazza (in quel momento a casa a pulire le pallottole da indossare al prossimo concerto) ne era entusiasta. I suoi modi espressivi, tipici delle popolazioni autoctone che vivono queste terre, rendevano quasi ipnotica la tesi da lui sostenuta che il genere horror sia un genere sottovalutato.
"Ma prima stavi canticchiando Bob Marley?" lo interrompo.
"Si, mi piace il reggae quando sono in compagnia. Da pace"
"E tu saresti punk?"
"Perchè, uno può essere punk solo se ascolta i NOFX"
"No, io sono molto più punk di te, e non ascolto ne l'uno ne l'altro".
"Anche tu punk?" mi dice con un sorriso ebete.
Evito di rispondere perchè non scatti la rissa. Ma quello che ho pensato (in esclusiva per voi) lo posso dire: "brutto figlio di puttana, che cazzo pensi, che bisogna andare in giro con una cresta in testa ascoltando gli Iron Maiden per essere punk? Tu che vieni a fare i gruppi di lavoro perchè te l'ha detto papà, e poi vai ai giardini a fumarti le canne con i tuoi amichetti, approfittando delle occupazioni delle università per andare a vedere se c'è figa, girando per strada intimorendo le vecchiette con falsa irriverenza, falso senso dell'anarchia, controllando sul cellulare touch screen se qualcuno ti ha scritto su Facebook, fingendo di cantare in un gruppo metal, senza nemmeno essere in grado di comporre un testo in italiano.. mi fermo. Ma tu? Credi davvero di essere punk? Qui l'unico cazzo di punk in tutta sta cazzo di città sono io. Tutti gli altri, cresta o meno, siete benpensanti".
Ho preso il numero di Marisa e me ne sono andato.

8 dicembre 2010

Eravamo 4 amici al bar.

Continua a piovere da un fottuto mese. Piove fuori e dentro, e i rumori ovattati senza cielo mi fanno sentire dentro una scatola di cartone. Non posso sapere cosa ci sia al di fuori, ma certo è che qui dentro siamo in troppi.
Si è stabilito che la cena verrà fatta in taverna da me. O meglio non si è deciso proprio un cazzo. Ieri mattina mi sono venuti a comunicare che avremmo cenato da me. Punto. Tu accendi il fuoco che noi portiamo da mangiare. Dai che ci vuole una bella rimpatriata. Se lo dite voi. L'assenza della mia ombra, che sotto questo cielo plumbeo ha colto l'occasione per darsela a gambe levate, fa si che il mio assecondare gli eventi sia più fluido. Nulla oppone resistenza. Accetto per disperazione tutto ciò che arriva, perchè il rifiuto non mi ha portato da nessuna parte.
Poi d'improvviso mi ridesto dentro ad una situazione e ciò che prima accadeva, ora gratta sulle pareti della mia anima, che silenziosa geme di dolore.
Eravamo 4 amici, compagni d'avventure, sventure. Abbiamo condiviso letti, pasti, donne, viaggi, noia, euforia, droga, alcool, liti, crisi, e chi più ne ha più ne metta. Ma eravamo solo un branco.
Il vino mi ha confuso ancor più la mente, mentre si parlava. Il fuoco scoppiava nel camino. Ognuno aveva qualcosa da dire, da raccontare. Io stesso credo d'aver intrattenuto conversazioni spicce. Di queste, in nessuna ho mai partecipato presenziando con la mia anima. Erano solo suoni, parole vuote messe li nell'aria per riempire quel vuoto e quella solitudine che io vedevo così chiaramente tra noi, mentre tutti gli altri fingevano divertirsi.
Eravamo 4 amici, ora eravamo 4 estranei che il tempo ha plasmato in modi differenti. Sento così teso il filo che ci lega nel passato che più volte sono stato sul punto di far esplodere il presente.
"Ti ricordi quella volta che.."
Si che me la ricordo, me la ricordo perchè c'ero, me la ricordo perchè ogni volta che ci si rivede torna fuori. Me la ricordo perchè è una fetta della mia vita che è passata, e che mai più tornerà. Le voci continuavano a volteggiare nell'aria, e io in mezzo sapevo ora incastrarci solo del fumo. La mia bocca annuiva senza intendere, il mio essere in apnea, sognando d'essere altrove. Che importa sapere dove si vorrebbe essere (non che non sia un vantaggio avere una meta), ma qui l'importante è ancora saper sognare, perchè senza i sogni siamo solo un comodino, o una sedia.
Guardavo negli occhi i miei amici, e più volte, davvero, sono stato sul punto di sbottare. Volevo supplicarli, implorarli che smettessero con la farsa, con il teatrino. Avrei solo voluto che smettessero di dire cazzate, che ci guardassimo negli occhi, senza dire nulla. A volte è più intenso un silenzio di mille discorsi. In fondo cosa vuoi che abbiano da dirsi 4 amici quando non hanno più nulla da creare, ma solo un passato da rievocare.

5 dicembre 2010

Ultimo tango a Parigi

Quand'ero piccolo ho intrattenuto una relazione strana. Nel pieno della mia adolescenza ho ricevuto inaspettatamente una lettera di un'ammiratrice: si chiamava Lucia. Profumava di cose che non si potevano dire, lasciando un universo di fantasie a giocare nella mia mente. Usava la carta da lettere di Snoopy, io l'adoravo. Preso dalla curiosità ho trovato il modo di rispondere alle lusinghe che mi venivano fatte, trovando un modo clandestino per recapitare i miei messaggi alla giovane mittente sconosciuta.
Non ricordo con precisione quanto tempo sia durato lo scambio di lettere, ma ciò che non scorderò mai era la passione sfrenata con la quale aspettavo l'arrivo della missiva successiva. Ogni giorno di ritardo era un incubo, ogni altra lettera che non fosse sua una tortura. La mano tremava mentre scrivevo, e accumulavo brutte copie su brutte copie. Credevo che le poste italiane avessero dovuto lavorare solo per noi due, in nome del sentimento che mi muoveva. Tutto ciò che sapevo di lei era un nome, e un profumo (probabilmente della madre vista l'età) con cui farciva le buste e il contenuto.
Credo d'averci fatto l'amore con quella penna e quei fogli. Avevo impegnato la mia anima ancora prima di sapere nulla dell'altra persona. Qualcuno mi amava, e non poteva esserci nulla di corruttibile in ciò che accadeva.
Ieri ho parlato con un'amica di Ultimo Tango a Parigi. In realtà ciò che avevo in mente era un lungo monologo sul perchè Marlon Brando fosse il più grande attore di tutti i tempi. Ma non le ho detto questo. Lei sosteneva che il film fosse un po' troppo forzato, poco realista, pretenzioso forse. Ho sentito una fitta al cuore, una fitta come quando ho realizzato che non stavo più aspettando le lettere di Lucia. Le ho spiegato di come per me il film non fosse altro che la più incredibile metafora dell'amore, di come esso funzioni basandosi sul presupposto che ci si conosca, quando invece siamo tutti dei perfetti sconosciuti. Ho sottolineato il fatto di come la passione non chieda altro che un nome, per potersi torturare di notte, nell'attesa di poter esplodere nuovamente. Sommesso poi ho dichiarato che sempre, e dico sempre, quando si arriva a sapere troppo sull'altro, la magia finisce, la passione si cerca nuovi adepti, e le illusioni vanno rifondate. Tutto il lavoro è buttato a mare, e ci si ritrova nudi, senza nulla in mano, come alla fine di un sogno. Forse c'era un po' di tristezza nei miei occhi quando ho sentenziato che le uniche due vie d'uscita da questo gioco sono l'incubo dell'abbandono (nel nostro caso la morte del povero Marlon), e la vergogna per esser scappati via (quella di Jeanne - Maria Schneider).
C'è stato un attimo di silenzio prima che la conversazione riprendesse con consuetudine. In quella frazione di secondo ho capito perchè non avevo più risposto a Lucia.
L'estate tra la fine delle medie e l'inizio del liceo m'aveva cambiato profondamente. Al posto delle lettere c'erno baci e voglie diverse, ma soprattutto, avevo scoperto chi era Lucia. Non so quanto tempo ci sia voluto prima che smettesse di guardare la buca delle lettere; prima di rassegnarsi al fatto che non le avrei più scritto. Mi sarebbe solo piaciuto dirle che non era colpa sua. L'amore è una grande illusione, quando i dettagli che si hanno della realtà si discostano troppo dalla nostra illusione non finiamo mai per accettare la realtà, ma solo per cercare la nostra illusione da qualche parte.
Dopo le chiacchiere sul film la mia amica ed io abbiamo finito la birra e siamo usciti a fumare. La guardavo nel suo essere, e sentivo che le mie parole (forse incosciamente) la dovevano aver toccata. Aveva gli occhi spersi almeno quanto i miei. Rideva di disperazione, come qualcuno che darebbe la vita per un po' di quella droga, di quella passione. Anche io avrei voluto avere indietro la mia Lucia. Mentre fumavo la mia mente aveva già iniziato a vacillare nel baratro del vuoto che mi porto dentro. Prima che si spegnessero le luci della ragione ho fatto l'unica cosa che sapevo avrebbe fatto bene a tutti e due: l'ho abbracciata.
"Siamo due solitudini ferocemente a caccia di fuoco" le ho detto.
Poi ognuno ha continuato per la sua strada.

3 dicembre 2010

Il Padrino

Mi arriva un messaggio mentre sto guardando un film (Aprile, di Nanni Moretti): "ho voglia di te, ora!". Una vecchia amica stava chiedendo un servigio sessuale. Per qualche tempo sono stato una mezza puttana agratis per amiche solitarie come me.
Esco di casa senza nemmeno pensare al perchè mi stessi recando a casa di Michela, era un bel po' che non si faceva sentire, aveva smesso di scrivere quando aveva trovato un'illusione amorosa in cui credere. Probabilmente le cose devono essere andate male, e aveva bisogno di dimenticare il prima possibile. Ma queste cose non si dicono in queste circostanze. Niente domande, e la cosa funziona.
C'era una nebbia fottuta, di quelle che ti bagnano l'anima fino nel profondo. Mi sono girato una sigaretta per il tragitto e ho spento la mente. Mi muovevo come un sicario che deve fare un lavoro sporco, ma che tutto sommato è il suo mestiere. Se il tragitto per arrivare a casa sua fosse stato più breve probailmente la transazione si sarebbe conclusa senza strascichi. Invece i miei passi e il deserto di nebbia che mi avvolgeva hanno amplificato il silenzio che sentivo dentro. I miei pensieri sono andati in molte direzioni, tutte inerenti al mio destino, così fottutamente lasciato in mano alle circostanze, senza che io potessi o volessi prendere parte. Uno spettatore inerme.
L'ho presa larga, girando per le piazze del centro, cercando per quanto possibile di lasciarmi il tempo di capire perchè stessi andando in quella direzione.
Voltato l'angolo per una delle vie del centro un suono di tromba mi ha riempito l'udito in un crescendo lento, malinconico. Ancora lui, quel trombettista solitario che già una volta mi aveva salvato la vita. Era tardi, non c'era nemmeno un anima in giro. Solo io e il suono di quella tromba. Stava suonando la colonna sonora de Il Padrino. Ho seguito la melodia come Guaio segue l'odore di cibo. Mi muovevo lento nella nebbia, come se non avessi voluto rompere l'incanto nostalgico di quell'atmosfera. Michela probabilmente si stava chiedendo perchè non fossi già arrivato. Me la immaginavo affacendata a sistemare casa, a profumare il suo corpo, a rendere tutto meno triste, meno decadente. Ha due occhi che implorano attenzione Michela, un corpo che chiede d'essere toccato come uno strumento.
Intanto avevo individuato il punto esatto in cui s'era sistemato il trombettista. Mi sono tenuto a debita distanza. Non volevo che mi vedesse. Non volevo che smettesse. Mi sono seduto a pochi passi da lui, nascosto da un muretto e dalla nebbia. Mi sono acceso una sigaretta.
I pensieri si sono decuplicati nella mia testa fino a riempirla in modo ingestibile. La malinconia m'è salita fino agli occhi, traboccando piano, rigandomi la faccia già umida.
Ho guardato il cellulare, un messaggio indagava sulle mie coordinate.
Ho tentennato un po' prima di rispondere. Sapevo che un giorno mi sarei pentito di ciò che stavo per scrivere, ma in quel momento non avevo altra scelta.
"Mi spiace, mi sono perso. Credo non verrò più sta sera. Credo non verrò mai più a trovarti. Mi spiace, ma devi cavartela da sola". Il sesso fatto così è un'inutile scambio di liquidi. Un'azione da etologi, da national geographic, fa film porno.
Non ci riesco più, credo, a fingere.
C'era solo quella tromba nella mia mente dopo aver premuto invio, e il rimpianto di non aver portato Guaio con me. Ho fumato fino a sentir male ai polmoni. Poi mi sono sentito sporco dentro, ma sollevato di non dover inventare parole inutili dopo un atto di sfogo. Sono tornato a casa e mi sono messo a letto. Guaio si lamentava, voleva uscire.
"Buono piccolo" gli ho detto, "buono piccolo, che fuori è un brutto mondo". Poi ho spento la luce.

2 dicembre 2010

Virus

Per comprendere questo post sarebbe meglio leggersi quello precedente prima. Lo dico perchè si può comprendere pure il motivo per cui nella stessa notte sono arrivato a scrivere due post di fila. Non è perchè non mi passa un cazzo. Letto? Bene. Questo è quanto accaduto nel lasso di tempo tra il "fai come fossi a casa tua" e il mio rientro barcollante di mezz'ora fa.
Scappato via di casa mi sono limitato a girovagare per la città con Guaio che si fermava ad annusare ogni pisciata. Lo osservavo nel suo interesse sfrenato per le urine altrui, ma mi limitavo a crogiolarmi nell'inadeguatezza che m'era rimasta addosso dalla situazione appena lasciata. Stavo respirando libertà, aria pulita, fumo di sigaretta. Ho passeggiato in mezzo agli urlanti (è come chiamo tra me e me gli studenti universitari under 25, quelli sopra li chiamo i disadattati*) per una mezz'ora buona. Li osservavo accuratamente. Il primo pensiero mi spingeva a usare il mio trasformismo per intrufolarmi tra All-Stars e zainetti cercando di fare incetta di ventenni. É un numero che mi riesce quasi una volta su tre (oh, intendo servizio completo eh!), ma quando mi trovavo a distanza-orecchio i miei passi si dirigevano automaticamente nella direzione contraria. È più forte di me, ultimamente la mia mente non mi permette nemmeno più di fare sesso senza essere disturbato. Urli, Facebook, Cellulari, TV, e quando si arriva alle sigle dei cartoni animati è troppo. Chissà se i ragazzi che sprecano tutti quei fenormoni per inesperienza realizzeranno mai che quelle tipe li non se le scoperanno mai. Quelle son donne da maritare, con dote a carico. Le scopate se le vanno a fare a Mikonos mentre sono studentesse, a Santo Domingo da lavoratrici. In Italia c'è il vaticano, la famiglia e la reputazione. All'estero 20 cm di cazzo gratis (30 a pagamento).
Devo essere parecchio ubriaco perchè ho già scritto due post e manco sono arrivato a dove volevo. Ci arrivo ora: tra una birra e l'altra (rigorosamente solo) mi sono imbattuto in una vecchia faccia amica, un compagno di feste quando ancora mi divertivo spensierato: ora un disadattato come me (penso). Beviamo una cosa assieme e mi dice che è di ritorno da Roma. Si sta dedicando alla scrittura a tempo pieno. ANDIAMO! Collabora per un sito di informazione letteraria. ANDIAMO! Ha conosciuto da poco un editore disposto a revisionare il libro che manca poco che finisca (a me quel manca poco dura da anni), ma comunque ANDIAMO! Sembra diventato come me: introspettivo, poco-socievole, molto-testadicazzo. ANDIAMO!
Ero quasi contento. Non mi importava nemmeno d'aver catturato l'attenzione di una fanciulla appoggiata al banco del bar. A chi interessano le donne se c'è una buona conversazione?
"Parlami del tuo libro"
"Siccome noi siamo parte di un tutto..." e già li iniziano i sudori freddi. "A un tipo vengono dati 3 mesi di vita, e lui che fino a quel momento non aveva fatto un cazzo, decide di scrivere le sue memorie. Nel percorso formativo scopre d'essere parte di un tutto con l'universo e con la natura, e intuisce che pure a lui è riservato un posto nel tutto. L'umanità si riscopre così come un unico organismo vivente tutt'uno con tutto. In parole povere un elogio all'essere umano".
"Hai mai visto matrix?"
"Si perchè?"
"Io sono dalla parte del Sig. Smith. Credo che l'uomo sia un virus su sto cazzo di pianeta. Dove arriva infetta e distrugge. Non ha il senso del limite ed è progettato per l'autodistruzione"
Gli do una pacca sulla spalla, la ragazza del bancone non c'è più. Mi accendo una sigaretta e penso solo a come occupare il tempo una volta tornato a casa.. Con due post, no?
Sono proprio ubriaco!
FRASE DEL GIORNO: meglio tenere la bocca chiusa e dare l'impressione di non sapere un cazzo piuttosto che aprirla e togliere ogni dubbio.

*Io sono uno di questi, mi sa. Ma ho una sfilza di scusanti (un po' vere, un po' inventate)

E ridaje con ste vecchie amiche.

Non so perchè, o meglio lo so ma non me lo ammetto, ma ho sempre la stramaledetta mania di ficcarmi in situazioni del cazzo. Così quando Roberta mi ha chiamato per chiedermi ospitalità le ho detto di si. Di lei si sappia solamente che è stata una vecchia fiamma di qualche anno fa. Il tempo ci ha resi abbastanza diversi da percepirci quasi degli estranei. O almeno sono io che non ritrovo in lei nulla di tutto quello che ci vedevo una volta. Forse ho perso la capacità di vederci chiaro, oppure semplicemente c'ho voluto vedere cose che in realtà non c'erano. In termini di aspettative siamo tutti sempre molto fiduciosi, sennò come fai a convincerti ad uscire di casa? Comunque sia sta sera (per la seconda volta) è venuta a casa mia. Segue un progetto "giusto a due minuti" da dove sto io. Le ho detto che poteva fermarsi, fare come se fosse stata a casa sua. Maledetto hippismo che ancora mi porto dietro. Questa sera, come l'altra, è stata estremamente ambigua. Si è stesa sul divano, ricordato i bei tempi passati assieme quando si scopava come conigli, tirato un sospiro di sollievo, e poi si è stesa con la testa sulle mie gambe, premendo (credo volontariamente) con la nuca sul mio punto debole. Visto che i suoi sproloqui sul quanto fosse entusiasta del nuovo progetto che segue li ho trovato definitivamente noiosi (con effetti pure deprimenti per uno che sta cercando da troppo tempo di combinare qualcosa senza speranza), ho pensato che almeno se avessimo scopato ci saremmo fatti un favore a vicenda: io le regalavo un orgasmo, lei stava zitta. Le ho messo una mano sulla nuca, le ho accarezzato i capelli come se provassi un vero sentimento di amicizia-fratellanza-mitrasferiscoacasatua, lei mi ha confessato d'avere sonno, e che voleva le coccole. Umiliato dal mio perbenismo ho mosso meccanicamente la mano sulla nuca sfregando come se stessi preparando un dolce leggendo un manuale di cucina. Dice che questo progetto durerà fino a marzo, tre giorni la settimana. Giuro che per marzo non resterà nulla del poco piacere che provo nel rivederla (di tanto in tanto) se crede di poter usare ancora la mia tana. Fa un po' la bimba, reggo il gioco, fa battutine al doppiosenso, reggo il gioco, spinge con sta cazzo di testa, le sorreggo un seno, mi bacia con un fervore che non avevo portato io a casa, reggo il gioco, dice che è stanca, la metto a letto e senza batter ciglio esco da questa scena che più che bucolica, dava le coliche.
"Ma mi lasci qui da sola?"
"Fai come se fossi a casa tua" ho urlato dalle scale.
Sono tornato ora, mezzo sbronzo. Lei deve svegliarsi alle 7, io per evitare intoppi ho pensato bene di fare le 4. Non si può mai sapere. Ora quella è di la che mi dorme nel letto, e io mi sento stuprato della mia intimità. Normalmente le ragazze entrano in casa mia per scopare e poi se ne vanno. Questa invece non ha consumato e si ferma. Non ci capisco un cazzo.

29 novembre 2010

Angelo, quello del bar.



Mi stavo imputridendo, consumando, decomponendo lentamente. Nello spirito, nell'anima, nella parte più cara che ho di me stesso. Mi sono fumato tutto il tabacco che avevo, e poi tutti i mozziconi. Quattro giorni senza uscire di casa, rintanato lontano dal mondo e dalla altrui solitudine. Guaio mi ha guardato storto tutto il tempo, come mi volesse far capire che lui non aveva responsabilità in merito. Reagisci Bandini, reagisci. Come il ritornello di un tormentone estivo continuavo ripetermi che dovevo reagire. Con la stessa ossessione riuscivo ogni volta a dissimulare, mentirmi, ingannarmi, raggirarmi per riscoprimi, a distanza di pochi minuti, immerso nella stessa brodaglia di mediocrità.
Ho covato rabbia contro me stesso e stima per quanto bene riuscissi a rigirarmi nel mio tedio. Quasi quasi sono pure riuscito a farmi compagnia.
Ciò che ha reso tutto più denso e patetico è stata la totale mancanza del segnale internet. Io e i miei pensieri, e nessuna valvola di sfogo. Ho maledetto il vicino per aver avuto la brillante idea di cambiare la password proprio in questi giorni. Poi ho maledetto me stesso per aver pensato fosse colpa del vicino. Ma l'angelo sterminatore come viene se ne va. Torna internet, e io esco.
Credo sia il peggior post che abbia mai scritto, i migliori sono quelli che ho person in questi quattro giorni, ma non me ne frega un cazzo, fuori c'è il sole, non indosso più la tuta da ginnastica, e tra due secondi esco di casa. Guaio ha la pallina in bocca.

28 novembre 2010

Nessuno si salva dall'infanzia


Aprendo la porta di casa mi si sono avventati contro i ricordi della mia infanzia. L'avrò aperta milioni di volte con quella sacra sensazione di chi arriva ad un porto sicuro. Poi ci si allontana per un po' di più del necessario e subito non la si riconosce. Il salotto era immerso in un buio denso, frantumato solamente dalla fioca luce di una lampada da tavolo. Una figura immobile stava immersa nel divano, come facesse parte dell'arredamento. Il tubo catodico proiettava in quegli occhi disillusi un fiume di immagini e suoni che una volta avrei riconosciuto come parole. Ho appoggiato la giacca sullo schienale di una sedia con la cautela di chi non vuole rompere irriverentemente un rituale.
“Quante volte t'ho detto d'appenderla in entrata, sull'attaccapanni. È fatto apposta!”
Congelato con la mano pendente mi sono sottomesso all'ordine ricevuto. Ho raccolto la giacca e mi sono diretto nell'oscurità fino al posto indicatomi. Poi sono tornato sui miei passi, prendendo posto in un lato del divano.
“Come stai papà?” ho chiesto dimesso.
“Questi figli di puttana ce le vogliono far bere tutte” ha risposto senza distogliere lo sguardo dal televisore.
Mi sono schiarito la voce, quasi convinto di non aver articolato bene, o d'aver parlato più piano di quanto credessi. Poi mi sono immobilizzato per qualche minuto, cercando d'orientarmi in quel posto che quasi non riconoscevo più.
“Finalmente ho trovato un lavoro” ho detto facendomi coraggio.
Nessuna risposta, solo un vociferare indefinito che proveniva dalla tribuna politica. Lo stato d'emergenza perenne in cui versava lo stato da troppo tempo sembrava imitare la tensione drammatica del momento. Mi sono passato le mani sui pantaloni. Il frusciare ripetitivo amplificava il senso di disagio in quel silenzio che amplificava enormemente le distanze. Il respiro lento di mio padre, i suoi occhi fissi e rassegnati, quell'immobilità costante mi pesavano addosso come una cascata di sassi.
“Come faranno a pensare che ci sia qualcuno disposto a credergli” tuonò mio padre rompendo il silenzio.
“Non capisco come tu possa ancora stare qui ad ascoltare tutte queste stupidaggini” ho risposto sommessamente.
“E pensare che tuo nonno ci credeva così tanto nel partito”
“Erano altri tempi”
“Altri tempi un corno!”
Non me la sono sentita di proseguire su quel sentiero. Dovevo assolutamente sbloccare la situazione, accendere una luce, spegnere quel televisore, urlare se necessario, ma si, l'incomunicabilità mi stava ammazzando secondo dopo secondo.
“Ti spiace se fumo?” ho chiesto portando nervosamente la mano alla tasca.
“Da quand'è che fumi, scusa?”
“Più o meno da quattro anni”
“Guarda! Ma guarda te che facce da culo. Certo che bisogna averne di fegato a mentire con quel sorriso, fottuti bastardi”.
“È tutto uno show. Te l'ho detto, la televisione deve restare spenta” ho risposto in una nuvola di fumo.
“Finirai per pentirti d'aver iniziato a fumare. È veleno quello che respiri, te ne rendi conto? Finirai con l'ammazzarti se non smetti”
“Non ho l'ambizione di vivere cent'anni”
“Lo dici perché sei giovane, ma un giorno ti attaccherai alla vita come un folle”
“La tua non è più vita, papà, è un'attesa”
“Sono tutti dei figli di puttana. Ma gliel'ho detto al presidente. Io non mi tessero più se le cose non cambiano”
Ad un certo punto mi sono accorto che mio padre aveva rotto il suo immobilismo. La sua mano sinistra si muoveva lentamente nello spazio che ci divideva. Accarezzava debolmente il posto dove sedeva sempre mia madre quando ancora questa casa era viva. Un nodo alla gola bloccava il fumo, ultima risorsa. Ho preso il posacenere dal tavolino spegnendoci la sigaretta con la violenza di chi sta togliendo una vita, una vita che arde. Ho tirato un lungo sospiro cercando per quanto possibile di vuotare la mente, di rilassarmi, di rendermi meno ostile nei confronti di quell'atmosfera. La mano di mio padre si era stretta a pugno. Il divano presentava ancora un'infossatura come se qualcuno si fosse appena alzato, e il suo pugno cercava irrimediabilmente di colmare quel vuoto.
“Mi sono trasferito in un appartamento più grande, ora posso permettermi di vivere comodo. Il mio capo dice che c'è una buona possibilità di carriera se mi do da fare” ho ripreso come se nulla fosse.
“Hai notizie di tua madre?”
“Mi scrive di rado, ma credo stia bene”
L'immobilità stava minacciando di congelarci in quella situazione per sempre, il divano sembrava liquefarsi sotto il mio corpo, lasciandomi affondare fino al collo. Di nuovo ho reagito. Ho tirato fuori il pacchetto di sigarette, ne ho estratte due mettendomele entrambe tra le labbra. La fiamma dell'accendino ha lanciato un lampo sul volto di mio padre, e i suoi occhi sono sembrati muoversi lucidi verso la luce. Deve essere stata questione di un attimo. Ho acceso le sigarette.
“Tieni” ho detto bonario porgendogliene una.
“Non vorrai mica uccidermi” chiese mio padre girandosi di scatto. Era la prima volta da quando ero entrato che mi guardava negli occhi. Forse era la prima volta in anni che mi guardava negli occhi.
“Non vorrai mica vivere cent'anni davanti a sto fottuto televisore” gli ho detto scherzoso.
“Sono tutti dei figli di puttana” ha detto sbuffando una nuvola di fumo.

21 novembre 2010

scrittura creativa.

Continuano le lezione di sto cazzo di corso di scrittura creativa. Dopo aver saltato 2 lezioni dando il tempo al vecchio insegnante di levarsi dai piedi con il suo sorriso da scrittore di libri noir, ho accolto l'arrivo della nuova docente con entusiasmo. Nonostante abbia detto a tutti e 20 noi scrittori promessi che abbiamo talento, dimostrando così di mentire spudoratamente, o cosa peggio di non aver assolutamente senso critico, ho voluto darle una possibilità. Io, personalmente, avrei sparato in fronte a 5/10 persone sul momento per l'insulto delle loro banalità, e tranne 2 o 3 (e sono buono) gli altri li avrei passati al corso di stenografia della sala affianco. Non capisco perchè certe casalinghe annoiate decidano di partecipare a questo genere di corsi. In realtà non capisco nemmeno come a una persona come me possa venire in mente di frequentare questi corsi. Comunque sia, salvandosi in corner, l'insegnante ha dato un compito per casa. Scrivere un racconto breve seguendo il motto "show, don't tell" che sa tanto da vecchia scuola di scrittura creativa all'americana. Wow. Tutti presenteranno la loro storiella in cui la ragazza sbarca da una Porche Ceyenne sposando il tronista di turno andando in luna di miele da Briatore con il Berlusca che canta romanze napoletane con la bandana in testa. Io ho scritto questo.  Che faccia faranno alla lettura del mio primo pezzo? Dico solo una cosa. Leggerò per ultimo. A voi:

Il telegiornale sputava parole dall'alto della sala gremita. Nessuno nel bar prestava davvero attenzione a ciò che accadeva altrove. Il barista stentava a stare dietro alle ordinazioni che arrivavano da più lati del bancone, e come un domatore si faceva largo tre braccia alzate che sventolando banconote sonanti pretendevano d'essere servite. Defilata in un angolo una coppia ignorava tutto e tutti baciandosi come se fosse proibito. Le mia seconda birra ormai stava terminando e non capivo se ciò che mi preoccupasse di più era la coda per ottenerne un'altra, o il fatto che Giulia non fosse ancora arrivata.
Il notiziario aveva lasciato il posto ad un varietà di basso livello, uno di quelli in cui la gente partecipa solo per urlare, per dimostrare che esiste. La porta aveva un gran lavoro nel far entrare e uscire gente, ma di Giulia nemmeno l'ombra.

Seduto dietro di me un gruppo di liceali faceva a gara a chi la raccontava più grossa, e tra il fragore di grosse risate si davano tutti il turno più inventando che ricordando. Uno di questi mimava nell'aria le forme di qualcuna che probabilmente non ha nemmeno mai visto. Il racconto sembrava interessare più le due ragazze sedute di fronte a me di quanto potesse interessare a chi di storie come quelle ne ha inventate già troppe. Ho preso il vuoto del mio bicchiere e mi sono avvicinato al bancone, defilato, senza mai perdere di vista la porta d'ingresso. Quelli che aspettano nel modo in cui aspettavo io vengono sempre serviti prima, perché sono sempre quelli che continuano ad essere serviti anche dopo che la ressa se n'è andata dal bar.
“Scusa avresti mica una sigaretta da offrirmi?” mi chiede una voce femminile interrompendo i miei pensieri. Il tono di voce non mi è conosciuto e con rammarico mi volto. Un viso dolce mi osserva in attesa. Sorrido di rimando e senza dire nulla le porgo il pacchetto aperto di Lucky Strike, le sigarette di Giulia. La ragazza esce soddisfatta a fumare sotto il pergolato.
Nel pacchetto mi restano 3 Lucky e mi convinco che fumandole tutte di fila avrei raggiungo il limite di sopportazione massimo, dopodiché potevo anche andarmene. Pago la birra. Il resto normalmente è solo di carta quando te ne servono due. A me hanno dato gli spiccioli.
Erano due settimane che Giulia era sparita nel nulla, e non capivo se ci fosse stato un equivoco nell'appuntamento. Continuavo a ripetermi nella testa che avevamo stabilito per le otto di sera, nel nostro solito bar. Forse non era giusto il giorno, mi dicevo. Ma anche quell'ipotesi era da scartare. Mi infilo in bocca la prima delle tre sigarette che mi restavano nel pacchetto, e prendo la via dell'uscita.
“Si fuma solo fuori” mi urla il barista che sembra perso nel caos, ma in realtà ha occhi anche dietro la testa.
“Sto uscendo, che ti credi” rispondo in tono secco.
Arrivato sotto il portico mi siedo ad uno dei tavoli liberi. In realtà ce n'erano un sacco con il freddo che faceva. Cerco nervosamente l'accendino in tasca senza speranza.
“Vuoi accendere?” mi chiede la stessa ragazza che prima m'aveva chiesto una sigaretta.
“Grazie” riesco a pronunciare mentre penso che se non le avessi dato quella sigaretta probabilmente Giulia avrebbe avuto qualche minuto in più per arrivare. Ma non ce n'era bisogno in realtà, appena mi rigiro mi ritrovo gli occhi di Giulia piantati addosso. Si era tagliata i capelli, e mentre la osservavo dalla distanza di due settimane mi stupivo nuovamente di quanto fosse ammaliante. Portava un paio di minigonne appena comprate, e lo sapevo perché quando usciva con me non le servivano.
“Ti prendo una birra?” chiedo quasi sottovoce.
“Sempre il solito, con le minorenni ti metti a parlare. Comunque niente birra. Ho solo due minuti, giusto il tempo di una sigaretta” dice duramente mentre estrae un pacchetto di Marlboro rosse.
Deglutisco un po' di saliva. Poi mi pulisco la bocca con un sorso di birra, senza voler rompere il silenzio per primo. La gamba iniziava a tremare nervosamente.
“Non c'è bisogno che tu dica nulla” le dico per metterla a suo agio.
“E mi hai fatto venire fin qui con sto freddo per non dirmi nulla?”
“Volevo solo vederti un'ultima volta” le ho risposto freddo.

P.S. Per onestà intellettuale devo dire che l'idea dello scambio delle sigarette non è mia, ma siamo democratici quando ci fa comodo. no?

18 novembre 2010

squallore.

E così il pugno sembrerebbe che sia servito a qualcosa. Il telefono suona, è Claudia, dice che vuole venire a trovarmi. Stavo seduto sul divano leggendo e fumando sigarette come se fosse proibito.
"Perchè no?" rispondo aggrappandomi all'inaspetatezza come l'altra sera ai suoi occhi. Tutto purchè qualcuno mi salvi da me stesso.
"Prendo il treno e arrivo da te dopo cena".
"Ti aspetto" e riaggancio.
La prima cosa sensata a cui penso è di richiamarla, vorrei dirle che c'è stato un malinteso, che non so bene come poter fare ad affrontare una sconosciuta. Il problema di dare appuntamento a qualcuno a casa propria è che non puoi scappare. Ti sono entrati nella gabbia.
Iniziano a sudarmi le mani e in testa continuo a pensare che quasi sicuramente Claudia ha messo in preventivo di fermarsi a dormire da me. Treni dopo cena ce ne sono pochi, e bastano poche chiacchiere per perderli tutti e dover aspettare mattina.
Mi muovo senza saper che fare, se dover riordinare, pulire, lavarmi o che. Mi accendo una sigaretta e aspetto passivamente cercando di nascondere a me stesso una certa eccitazione che si fa avanti nei pantaloni. Una sconosciuta a casa mia. In fondo Claudia per me non era altro che due occhi e un numero di telefono che forse non avrei usato mai.
"E fatti sta cazzo di scopata" mi impone il mio sesso dal basso.
Sento l'irrimediabile avvicinarsi e cerco in tutti i modi di prenderlo con filosofia. In fondo se mi aveva colpito, se mi ci ero riconosciuto.. magari può solo venire a curare le mie ferite.
Un messaggio mi chiede di andarle in contro. Scendo al volo, Guaio (il cane) mi guarda perplesso. Me la trovo davanti all'improvviso con un sorriso disperato. Questa sta peggio di me penso, e un po' mi consolo. Annulliamo la distanza tra noi, mi bacia.
"L'ho fatto subito per togliere l'ansia di doverlo fare dopo" dice con imbarazzo.
Mentre passeggiamo verso casa noto che la sua andatura è notevolmente ostacolata da dei tacchi da trampoliere. Camminava come una bambina che gioca a fare la femme fatale. La osservo con la coda dell'occhio e percepisco dal suo sguardo e dal modo in cui è vestita che deve aver avuto una paura fottuta di non essere all'altezza, e per questo ha preferito abbigliarsi alla "puttanesca". Meglio mostrare che qualcosa di buono c'è (di fuori) anche se dentro sta morendo. Mi suscita tenerezza, smarrimento e rallentando il passo l'accompagno a casa mia.
L'imbarazzo di entrambi si taglia col coltello e io mi convinco sempre di più che non ho nulla da dirle in realtà. Ma ormai ci sono dentro, dentro fino al collo.
"Raccontami qualcosa" mi chiede ogni volta che ho finito di raccontarle qualcosa.
"Non ho più palle da inventarmi" rispondo dispiaciuto.
"Allora stiamo un po' in silenzio, mettiamo su un po' di musica".
Credo sia stato il nervosimo o l'eccessivo silenzio tra di noi che ci ha fatto finire a letto assieme, nudi, a scopare come corpi inermi. Ad ogni bacio finto sentivo l'anima spirarmi di dentro. Ad ogni suo sospiro di troppo un brivido d'imbarazzo mi correva lungo la schiena. Dopo quel poco piacere che siamo riusciti a procurarci mi sono assorto in un abbraccio compassionevole. Continuavo a pensare che anche lei stesse provando la stessa cosa, ma probabilmente aveva più bisogno di quello che del nulla che si portava appresso. Di li a poco è riuscita a prendere sonno, io sono andato a finire il pacchetto di sigarette, ho messo la sveglia alle 8 di mattina e le ho scritto su un foglio che ero uscito per lavorare, che poteva fare quello che voleva, poi bastava chiudere la porta.
Mi sono disteso con una sconosciuta nel letto, e la solitudine che ne stava germogliando mi toglieva il respiro.
Non so cosa sia successo, perchè non sia stato in grado di gestire meglio la situazione, almeno farla sentire a suo agio. Non sono un crocerossino, o meglio, non lo sono più. L'ho osservata mentre dormiva, sembrava fare bei sogni. Io non riuscivo a lavarmi lo squallore di dosso. Come quando usi un deodorante Axe. Avete presente?

17 novembre 2010

tutto per un secondo di goduria.

Quando mi sono fatto trascinare in una festa tipo "disco/cocaina/se paghi scopi" ho fatto finta di incolpare il fato per avermi messo in quella situazione. La verità è che me la sono andata a cercare. D. si è innamorata di nuovo, lui è un musicista che canta del male di vivere. Lei si porta addosso una bellezza ineguagliabile e un'intensità infuocata. Era logico che scattasse la passione.
Io non mi sopportavo, così lontano da tutto, senza un minimo di intensità, che quando ho sentito "festa", non m'è davvero importato con chi fossi. Ho seguito le luci perchè il buio di casa mia m'avrebbe dilaniato.
Tra me e i ragazzi con cui sono venuto non c'era apparentemente nessuna differenza: ce ne stavamo tutti appoggiati al bancone del bar a vedere chi si sbronzava prima. Non credo d'essere arrivato primo, ma ricordo il dolce sapore della vodka mischiata alla tonica cullarmi un po' in quel mare di solitudine. La musica e le luci creavano un'atmosfera dai retrogusti orridi. Le chiacchiere di circostanza sui culi che ci sfioravano m'hanno messo il serio dubbio di non trovarmi in una discoteca, ma sulla piazzola di un autogrill surreale, dove per 50 euro qualcuna/o ti avrebbe tolto il peso del menù rustichella.
Quando l'alcool aveva creato il necessario livello di spersonificazione, le bestie umane che si dicevano miei amici avevano iniziato a muoversi secondo quella natura repressa che li aveva portati li dentro. Un po' alla volta mi sono trovato solo, abbandonato nella folla, cercando risposte negli occhi del barista. I ragazzi stavano usando le loro compagnie improvvisate aggrappandosi a fianchi sconosciuti. Le loro labbra sputacchiavano complimenti dal gusto di naftalina, il loro scopo era un secondo di goduria. Scoprire negli occhi delle ragazze quel piccolo orgoglio per essere ammirate (non importa da chi) m'ha squarciato il cuore. Quanto, quanto vale tutto quello squallore? Quanto vale il complimento di chi ti tratta come un oggetto? Quanto soli bisogna essere per cercare amore in un contenitore vuoto.

Me ne sono uscito sul terrazzino a fumare. Come Edipo mi sarei strappato gli occhi di dosso per non vedere più nulla. Mi sono sentito in gabbia. Ho cerato un appiglio per non svenire, per non cancellarmi, annullarmi. E mi sono aggrappato ad paio di occhi che da lontano mi controllavano curiosi. É incredibile come si possa ritrovare contegno con un po' di fiducia. Quegli occhi mi guardavano e sembravano dirmi una sola cosa: "portami via". Ci ho messo due sigarette per convincermi ad andare a parlarci, non per paura, ma per evitare di schiantarmi da qualche parte nel tragitto. Intanto studiavo il suo guardarmi che come una carezza m'aveva infuso speranza. Se sono vivo è solo perchè tu, in questo momento, mi stai guardando. Quegli occhi avevano due gorilla affianco. Io come scudo non avevo nulla da perdere, così li ho affrontati.
Claudia stava peggio di me. Quei due esseri la opprimevano impedendole di volare. Nemmeno fossero stati due magnaccia. Le rubo due parole, una sigaretta e il numero di telefono. Mi tiene la mano come fosse una bambina. Le sorrido con riconoscenza, non credo mi piaccia davvero, ma almeno per questa sera potrò andare a letto sapendo che qualcuno come me non si è divertito li dentro. Prima di scivolare verso il bancone del bar osservo con cura i guardaspalla che non mi staccavano gli occhi di dosso.
"Cazzo guardi, stronzo" dico a uno dei due.
Un pugno di arriva caldo sul labbro. Attendo un secondo. Mi avvicino porgendo la mano e prima che possa stringerla gli do una ginocchiata sui coglioni che deve essergli penetrata fin dentro il suo ripostiglio d'orgoglio, scassando tutto. Claudia sorride preoccupata per la mia sorte. La osservo l'ultima volta in quell'attimo di pace prima che si scateni il finimondo. Due secondi dopo i buttafuori fanno il loro sacrosanto dovere, separandoci e buttandoci fuori da uscite diverse. Il mio visino è salvo.

Una volta ogni tanto la sorte mi ha salvato da una fine certa, e non mi riferisco ai due gorilla.

11 novembre 2010

Nemesi



La vita a volte tende agguati. Ho passato gli ultimi due giorni insolitamente spensierato. Sono uscito fischiettando, ho giocato con Guaio. Mi ha pure dato una mano a rimorchiare. Due chiacchiere e una birra. Parlavo del più e del meno, ascoltavo quello che mi si diceva. Ho lasciato pure il mio cinismo a casa, dimenticato sbadatamente in un angolo. Il giorno dopo ho pure scopato, una di quelle scopare mediocri che però hanno il potere di farti svegliare quasi di buon umore il giorno dopo. Non mi stavo a chiedere cosa stesse succedendo, vivevo, e lo facevo come gli altri. Negli ultimi due giorni sono stato una persona normale.
Sta sera sono rientrato, e li, sulla soglia di casa un agguato m'aspettava. L'ho riconosciuta in un istante. Il fuoco m'è divampato dallo stomaco dritto in faccia, il tempo è rimasto sospeso, e le pareti si sono sbriciolate sotto il mio sguardo smarrito.
"Oh se questa troppo, troppo solida carne, potesse disfarsi squagliarsie sciogliersi in rugiada. Oh se l'Eterno non avesse scritto la propria legge contro il suicidio. O Dio, Dio, come mi sembrano tediose, stantie, banali e senza profitto tutte le usanze di questo mondo!" (Amleto)
Il flusso di pensieri senza scampo m'ha braccato, sfiancato fino a finirmi qualche metro più in la. É durato un eternità l'attimo in cui con rabbia avrei strappato gli occhi all'umanità, e con ferocia mi sarei avventato contro ogni parola, sillaba inutile pronunciata in questo mare di silenzio. Vattene tu dove ti pare, lasciami vivere. Sono un reietto e da quelli come me non pretendere mai un briciolo di coerenza, normalità. Siamo bestie in agguato, e la vita, in un attimo sa riprendersi quello che tu a forza gli hai strappato.
Nudo su questa terra piatta a cercare un rifugio.
Tu, mio simile, che mi guardi con occhi interrogativi, se non sai comprendere, non chiedere, semplicemente volgi lo sguardo da un'altra parte, e dimentica quello che hai visto.

4 novembre 2010

Uno nessuno centomila

"Conosci te stesso". Quante volte l'avete sentito dire? Quante volte vi è stato propinato come consiglio sull'acquisto di una personalità?
"Devi conoscere te stesso, solo così starai bene". Palle.
Chi conosce se stesso è così idiota da avere una sola personalità. Probabilmente non cambia nemmeno mai idea, perchè con quelle poche che gli arrivano non può nemmeno pretendere di mettersi a confutarle tutto il tempo.
"Trova il tuo equilibrio" è invece il postulato a cui si dovrebbe arrivare dopo essere arrivati a conoscere se stessi.
"Ciao, piacere, sono te stesso, e guarda.. so stare in piedi su una gamba sola".
Siamo tutti il frutto di quello che vediamo, leggiamo, ascoltiamo e impariamo. Ovviamente più cose passano per il cervello di una persona più semplice è che le sinapsi riescano pure a formulare pensieri complessi. Il problema è che la gente che da buoni consigli è quella che si ferma al primo pensiero complesso. Non lo decuplica, non lo eleva a potenza, non lo spreme e rigira e dilata e annulla. Cioè, quello che ti stanno dicendo quando ti raccomandano di conoscere te stesso è: usa un po' il cervello, e quando ti sembra di aver trovato una verità, fermati. Questo è ovvio, perchè se arrivassi ad un'altra verità ci sarebbe un bel problema da risolvere: o una delle due è sbagliata, o magari tutte e due. Normalmente chi ha di questi problemi non trova mai il tempo per verificare, si limita ad andare in chiesa e chiedere a qualcuno di prestargli la sua verità: comoda e collaudata.
Io non sono nessuno, non mi conosco, ne lo pretendo. Soffro ogni volta che mi scopro diverso, imprevedibile, innamorato e disilluso, ottimista e perverso, solo e socievole, crudele e misericordioso. Non so chi sono, e vorrei, vorrei con tutte le mie forze tornare ad essere il bambino di una volta, ma nel mondo dei pensieri non esiste lo smacchiante, e il candore dell'idealismo ha vita breve di fronte ad una tavola imbandita com'è la vita.

3 novembre 2010

Emile Cioran


"Chi prima della trentina, non ha subito il fascino di tutte le forme di estremismo, non so se devo ammirarlo o disprezzarlo, considerarlo un santo o un cadavere. Non si è forse posto, per mancanza di risorse biologiche, al di sopra o al di sotto del tempo? Deficienza positiva o negativa, che importa! Senza desiderio né volontà di distruggere, egli è sospetto, egli ha vinto il demone o, cosa ancor più grave, non ne è mai stato posseduto. Vivere veramente vuol dire rifiutare gli altri; per accettarli, bisogna saper rinunciare, farsi violenza, agire contro la propria natura, indebolirsi" - Emile Cioran [Storia e utopia]


Sono nuovo del mondo dei blog, ma una cosa l'ho capita, qui si fa davvero quello che si vuole. Come ho già ripetuto altre volte, non scrivo per compiacere, ne per divertire, ne per altri scopi che abbiano come fine l'altro e non me stesso. Ultimamente mi si è rimproverato di essere sempre depresso quando scrivo, di svelare il mio pessimismo, la mia malinconia, come se fossi un capitalista del rigurgito. Non scrivo perchè la gente possa fare, come diceva sempre D., "discorsi da caffettino" sui miei pensieri, analizzandoli o cercandoci paturnie. Non sono qui per farmi nè analizzare, nè psicoanalizzare. Sono qui perchè se non scrivo scoppio, perchè non ho interlocutori ne auditori che mi comprendano, che ascoltino, e che senza dire nulla prendano solo il buono di ciò che c'è in quello che scrivo. Il buono sta in una rivincita nei confronti della vita, delle persone, di questo inferno impermeabile all'originalità. Omologazione, luoghi comuni e paura. Paura di ascoltare il diverso, perchè sembra sovversivo.
Se stavo bene non mi mettevo davanti allo schermo a scrivere, ma andavo fuori a scopare, come succede nei giorni in cui non ci sono miei post presenti. Come dite? questa non è la pattumiera dell'anima di nessuno? Provate a spiegarlo a chi non ha una morale, nè un'etica.
Poi, come se davvero esistesse la provvidenza arriva un commento solo, che da un senso a quello che faccio:Elimina
Anonimo Anonimo ha detto...
Io a leggere i tuoi post non mi annoio affatto, li trovo taglientemente ironici e spezzano il senso di solitudine! grazie

Non era necessario, ma in fondo è tutto li, in quel grazie alla fine. Qualcuno è passato di qua e non si è sentito l'unica mosca verde del mondo. L'unico problema è che le mosche verdi parlano poco.


P.S. Il video di Cioran è un'intervista completa. Ho postato solo la prima parte di quattro. Vi lascio con un suo aforisma in cui rivedo tutto me stesso: "Se mai dovessi abbandonare il mio dilettantismo, è nell'urlo che mi specializzerei".

28 ottobre 2010

se non ti piacciono i miei principi.. ne ho degli altri.

Sono depresso. E quando sono depresso prietto un'immagine sfigata di me stesso. Sperare che gli altri vedano di buono dove io stesso fatico a trovarci qualcosa di decente è una proposta indecente. Ma non è questo il problema. La mia miseria in fondo non supera mai quella degli altri.
Comunque sia, depresso o no bisogna cercare almeno di scopare un po', giusto? Bene, metodo dell'ultima settimana è usare due personalità antitetiche. La loro scelta è puramente casuale, il risultato sempre lo stesso:
A. fingo di far parte del "frikky yeah studente odia autorità, mezzo anticonformista ma con scarpe firmate", rispolvero battutine vecchie che fanno ridere solo i decelebrati e mi catturo subito la stima dei subnormali. Offro da bere come se fossi un gentleman da quattro soldi, osservo la scollatura senza ritegno. La società dominante spinge la donna a mettersi in mostra come un oggetto, non disdegna d'essere trattata come tale, anche se poi per fare l'alternativa manifesta per la parità dei sessi. Le conversazioni rasentano argomenti quali Facebook, Schientology, il tempo atmosferico, animali domestici. Dopo poco non resisto. Vado in bagno e mi guardo allo specchio non mi sopporto, mi spunto addosso perchè non ci posso credere di dover scendere così in basso per una scopata e vado via (la maggior parte delle volte senza salutare).
B. interpreto la parte del mezzo intellettualoide per darmi delle arie sfoggiando un paio di citazioni che nemmeno se imparassero a leggere riuscirebbero a capire, poi driblo con due ragionamenti per vedere fino a che punto mi seguono. Uso il mio cinismo per testare il loro senso dell'umore, e la maggior parte delle volte mi trovo a ridere da solo. Vedo il loro sguardo irrigidirsi mentre con sottile ironia chiedo dimostro loro quanto siano imbottite di luoghi comuni. Sono prevedibili, nei discorsi, nei pensieri neglio atteggiamenti. Vivono sotto una cappa cattolico-borghese che le ha privati del senso della vista. Impreco spesso volentieri e mi finisco un pacchetto di sigarette davanti al loro naso. Normalmente succede che dopo una mezz'ora seduti a discutere lei ordina un cocktail vegetariano con vitamine senza polifosfati e una scorzetta di limone. Se non è lei ad andare in bagno per non tornare più, ci vado io. Anche in questo caso non si conclude nulla.
I ritorni a casa a mani vuote hanno sempre e comunque uno sfondo malinconico. Chi devo pagare per poter avere pane per i miei denti, qualcuno con un minimo di personalità, o che per lo meno se non ce l'ha (perchè nessuno ne ha una, al massimo può avere molta fantasia) che sappia giocare un po'.
Mi annoio.

24 ottobre 2010

Vivere o rodere

Per me funziona sempre così: un alternarsi di personalità a rotazione, dalle più duttili alle più ostiche. Morale: se indosso una maschera allegra non scrivo. Se sono fottuto nella mia merda invece non posso smettere.
Sono arrivato alle porte del fine settimana continuando a rimproverarmi: devi fare qualcosa nocturno, devi darti una svegliata. Il mondo va avanti, tu invecchi, e te ne stai come uno spettatore mestruato ad osservare il tutto lamentandoti come un vitello appena sgozzato.
Ho iniziato il mio processo di imbecillimento con una canna, una volta fumavo parecchio, ora solo quando non ne posso più. Maledetta sostanza omologante che rendi tutto piatto ma accettabile. Quando fumi le cose ti rimbalzano addosso, sono come proiettili di gomma e tu sei uno scudo sicuro. Venerdì ridevo ubriaco, domenica ridevo ubriaco, ho pure scopato senza dover inventarmi strategie strane. Tutta una serie di coincidenze fortuite, un po' di fascino collaudato, due sorrisi di più ed è fatta. Fai sentire una persona simpatica e ti darà le chiavi di casa. Dille che è pure intelligente e aprirà le gambe. Ero socievole, brillante, arguto, coinvolgente, un vero treno. Per due giorni non ho pensato alla tristezza, al vuoto, alla solitudine. Mi sono sentito come gli altri.
Questa domenica mattina se non mi rimettevo a scrivere avrei finito col prendermi a pugni. Come dopo il sesso il senso di vacuità è amplificato da ogni gesto senza amore, così una domenica mattina ti scaraventa nella miseria della tua esistenza ad ogni flash che riemerge dai fumi e dall'alcool.
Mi sono fatto due docce da quando mi sono svegliato, ma non so pulire l'anima. Mi sento peggio di prima, solo. Rivedo tutti gli sforzi che ho fatto per sentirmi come gli altri, to fit in, e ora proprio quegli sforzi mi si rivoltano contro dilaniandomi le carni. Sono nato diverso, anche se mi sforzo, non ce la farò mai ad essere come gli altri. Mai tradire se stessi dice la mia descrizione. L'ho fatto e ora chissà quanto dureranno le conseguenze.

14 ottobre 2010

eliocentrismo

Oggi ho vomitato il mio odio verso il mondo sull'orecchio di D, che prontamente mi ha ricordato che non bisogna mai mettersi a parlare con la gente che crede ancora che la terra sia piatta e al centro dell'universo. Cazzo. Eppure ogni volta la mia falsa speranza nell'umanità mi spinge ad uscire di casa. E poi ogni volta me ne torno a casa o con un corpo senza cervello da scopare, oppure (il che è pure peggio) sentendomi una pecora verde.
"Sei troppo negativo" mi dice ogni tipa X.
"Non sono negativo, sono realista" rispondo automaticamente.
"No guarda, ti spiego io.."
E iniziano sempre il loro discorso da crocerossine con la missione di spargere amore in giro per il mondo. Da li passano a spiegarti come ci sia un piano per ognuno di noi, che tutto si sistema, che esiste per tutti l'anima gemella e troiate del genere. Mai che siano riusciti a spiegarmi come accettare l'esistenza, o ancor peggio se stessi. Camaron de la Isla diceva "non so chi sono, ne lo pretendo*"
"Si ma devi imparare a conoscere te stesso, devi trovare il tuo equilibrio"
Ogni volta ci provano, subdolamente, facendo perno sulle mie paure, sui miei dubbi, incertezze, sul mio dolore. Troppe volte ho pensato, cazzo quanto mi piacerebbe avere un'esistenza semplice (e grama) come la vostra. Come mi piacerebbe che il mio cervello si fermasse per un po', facesse una vacanza, e tornasse per la vecchiaia.
Poi inizio ad incuriosirmi, a domandare, a scavare. E che ti trovo? Luoghi comuni, dogmi, verità di altri, e chi più può più ne metta.
"Ma sei religiosa?**"
"Non credo nella chiesa, ma so, sento che c'è qualcosa di più grande che ci guida"
Fottuta provvidenza divina. Eccola li che arrivi sempre a spiegare tutto. E dunque noi siamo qui, messi su questo parcogiochi per Dei crudeli che scommettono sulle nostre vite come se fossimo dei polli da combattimento. Sento il cuore che mi si crepa, mi accendo la stramillesima sigaretta (nella speranza che questo delirio di vita finisca presto), e inizio ad incazzarmi. Povera mia interlocutrice, costretta a subirti lo sfogo di una rabbia contro l'umanità intera, contro la sua presunzione, miopia e arroganza. Umiltà signori miei. Umiltà. Qui si sopravvive nel silenzio camminando sulle uova. Eccome se ne rompono, ma Dio non ha una ramazza, e il suo mestiere non è quello di spazzino. Al massimo potrebbe ambire a diventare un personaggio dei fumetti, ma in quanto a popolarità verrebbe comunque battuto da Topolino.
"vedrai che tutto andrà bene"
Vorrei vivere cent'anni solo per aspettarti sul letto del fiume e vederti improrare perdono per aver avuto la testa piena di merda. Un televisore mai connesso alla corrente. Un organo celebrale completamente nuovo, che aspetta solo un trapianto nel corpo di qualcuno grato con la capacità di usarlo.
Domani mattina mi sveglierò, e la speranza sarà di nuovo li sul comodino ad aspettarmi, sennò col cazzo che smonto dal letto.
Datemi una sigaretta!


*Titolo canzone: Volando voy. Frase originale: "Yo no se quien soy, ni lo pretendiera"
**il prossimo post sarà sulla religione.

11 ottobre 2010

corso di scrittura

Cosa si deve fare per scopare. Uno le prova tutte, e alla fine finisce pure ad un corso di scrittura. Non avrei mai creduto di rivedermi scolaro. Seduto in un anonimato in mezzo ad una ventina di persone. L'unico motivo per cui a metà del corso non mi alzo è Cristina, seduta poco più sulla mia destra. Sono state quattro le occhiate che ci siamo scambiati, e tutte quell'attimo più a lungo del necessario. Il tutto immerso tra le parole di un professore saccente, che più che voler insegnare cercava una platea per autocompiacersi.
Me ne sono stato in silenzio per quasi tutto il tempo. Osservavo, pensavo, e un poco alla volta morivo. L'esercizio della serata era: dato un incipit, svolgere la trama in poche righe. Cosa si riesce ad inventare la gente è davvero sorprendente. C'è stata una parola tra tutte quelle lette dai compagni che mi ha fulminato più di tutte: malva. Mi chiedo come in un lavoro di fantasia in cui il tempo d'esecuzione è di circa 5 minuti, ti possa venire in mente il color malva. Che c'è? non sai tenere a freno il tuo egocentrismo e cerchi di pubblicizzarlo dandone foggia alla prima occasione? Malva. Mi ha suscitato una nausea improvvisa. Ho dovuto concentrarmi più del necessario su come potesse essere Cristina da nuda per non soccombere all'idea di alzarmi e andarmene. Sarebbe stata un'uscita in grande stile. Senza una parola. Semplicemente alzarsi e andarsene.
Il professore come un direttore d'oechestra incalzava tutti di complimenti sciatti e vuoti come scatole di cartone. Se qui tutti sono bravi allora sei tu ad essere un coglione no? Che cazzo insegni a fare? Ma forse non verrebbe più pagato se dopo la seconda lezione si alzasse e dicesse: "Signori miei, qui solo tre persone hanno qualcosa da imparare qui, tutti gli altri a pulire i cessi per favore".
Un'altra cosa mi ha stupito più di tutto: la falsità. Non capisco il nesso indissolubile tra fantasia e lieto fine. Perchè cazzo se pensi ad una storia sei ottimista, e quando invece ti svegli alle 7 del mattino per andare al tuo cazzo di lavoro no? Forse il segreto sta nella tonalità cromatica del malva.
Malva.
Ma va...

10 ottobre 2010

Fottuti sabato domenica.

C'è poco da fare, uno per cinque giorni la settimana si sveglia in una città diversa dagli altri due restanti. Durante la settimana vedi zombie che se ne vanno in giro innocui, vanno a lavorare, hanno i coglioni girati ma almeno cercano di non romperli a te, che sei un perfetto nessuno. Ognuno trascina in giro per la città la sua miseria, lo fa quasi dignitosamente, ma ti guardano con un'aria un po' complice, come di chi sa che tra il tuo e il loro lavoro non c'è differenza: sono comunque lavori di merda.
Per questo mi riesce facile passeggiare per le strade durante la settimana, se me ne sto con i miei pensieri, la mia solitudine, non impatto contro nessun perbenismo. Siamo anime che girano senza meta per una città sconsolata.
Ma nel fine settimana.. nel fine settimana avviene la mutazione. La campagna decide di andare in città a dare sfoggio del proprio italiano stentato, ma rigorosamente marcato Gucci. La signora di cinquant'anni preferisce fingere d'averne venti (ma inganna davvero qualcuno, o solo se stessa?). Le ragazzine di sedicianni sfilano con le loro tette al vento esasperando una femminilità acerba, innaturale, che seppur porta i suoi frutti lo fa solo nei confronti di macellai. Carne signori, carne fresca, disossata, decelebrata, inflazionata. I ragazzi fumano sigarette con poca arte e troppa foga, una dietro l'altra, non per nervosismo, ma per scena. Poi ci sono i vecchi giudicanti, i punk troppo punk fuori e poco dentro. Quelli che si fermano a parlare in piedi con la 24 ore sotto mano anche se stanno parlando di calcio, ma l'immagine si sa. Tra i tavoli si vocifera di vacanze (fatte o da fare). Quanto bello è quel film (dei F.lli Vanzina), quanto interessante quel libro (Stieg Larson), bella quella mostra sui Macchiaioli (che non sono allevatori di dalmata). É finzione, una farsa mascherata, è la sagra del kitch, del retrò, una passerella per anime perse che mostrano con fin troppa evidenza la propria mediocrità, nell'attesa che qualcuno si faccia avanti. Vestiti uguali, discorsi uguali, scarpe uguali, modi di dire, di fare, Facebook, Twitter, Myspace, sguardi clericali, false indignazioni. Giudizi, mormorii, pettegolezzi, tradimenti, sotterfugi e tutto, tutto alla luce del sole. Come dice Caparezza in questo bagno di folla non c'è bagnino. Io affogo, mi esilio in casa, e attendo che tutti riprendano contatto con la realtà. Ma dovrò aspettare fino a lunedì.

8 ottobre 2010

Vuoto

Ho 29 anni. I prossimi peseranno e sanciranno l'inizio del declino minore. Quello maggiore è iniziato con il mio primo respiro. Sono stato innamorato di una bugiarda con il fuoco dentro. Il dolore che mi ha causato ha distrutto la più grande delle illusioni della mia vita: l'amore perfetto. Ora non sento più nulla. Vuoto che si ripercuote nel mio presente e nel mio futuro.
Passo intere giornate senza fare nulla. Mi aggrappo a tutto ciò che mi capita sotto mano. Senza scegliere. Mi sorbisco ore di noia in compagnia di chiunque capiti a tiro. Meglio se il sopportare ha uno sfondo sessuale. Almeno non è lavoro sprecato. Come ho detto non sento nulla. Scopare in questo momento è quasi una funzione maccanica. Qualcosa che il mio corpo vuole fare e io non impedisco. Continuo a chiedermi se sia una reazione per annullare il dolore provato. Diventare freddo per smettere di soffrire. Ciò che temo più di tutto, anche più della morte è l'apatia. Lei mi chiama. Dice di essere pentita d'avermi tradito e mentito innumerevoli volte. Sono io ciò che vuole. Dopo aver creduto fino a sanguinare che tutto ciò potesse rendermi qualcuno. X qui, X li. La più sensuale delle ossesioni che abbia mai avuto. Ascolto le sue parole e sento il vuoto. Non un brivido, non una lusinga, nè odio, nè rabbia. Solo una continua domanda: cos'è diventato il mio cuore?
Tra una scopata e l'altra negli ultimi tempi sto uscendo con una ventenne. Un piacevolissimo vizio. La sua fragranza unita al pulito che ha negli occhi la rendono inebriante. Ma seppur l'abbia già baciata in una serata di qualche tempo fa, non c'esco per concludere nulla. Lei è innamorata di un altro. Non potrei permettere ad una cosa così graziosa di starmi accanto per cancellare qualcun'altro. Ho bisogno di sentirmi desiderato, il migliore, l'Humprey Bogart della situazione. Fumare fumo e lo spolverino bianco lo recupero. Per cui sono lunghe chiacchierate in cui io passo troppo tempo a fare il saccente e ad odiarmi mentre lei sembra sempre da un'altra parte. Intuisco un qualche interesse verso di me, dai gesti, e gli spazi ravvicinati. Però non sono io quello su un milione. Per cui temporeggio. Temporeggiare è necessario quando nemmeno tu sei sicuro di sentire veramete qualcosa. Diciamocelo una lolita di vent'anni saprebbe occupare i sogni di molte persone. Specie con quegl'occhi. Magari è tutto li. Pura attrazione fisica. E invece no, perchè c'è pure qualcosa, c'è un'intesa strana, immatura, complice. Eppure due cose rendono tutto poco perfetto: il fatto che sento che sembra tutto un po' forzato, e il secondo che perduro nella mia apatia.
Della mia vita professionale si sappia solo che come Cioran ho cercato di studiare il più a lungo possibile per evitare di dover lavorare. E seppure veda la fine del travagliato tunnel fancazzista studentesco (un orrore con abbagli di alcolismo) non riesco a muovere un passo verso la mia indipendenza. Non ho paura di lavorare. Ho paura di non riuscire a percepire qualsiasi lavoro come una schiavitù. E il vuoto si amplifica. Ovunque il nulla.
Mi sento la reincarnazione dell'uomo senza qualità. Sento che mi sto corrompendo dal di dentro, mi osservo, e non sono in grado di dirmi nulla. Tutto è uguale, tutto è vuoto, e io mi posso nemmeno sentirmi morire troppo spesso. Perchè sennò significherebbe sentire qualcosa.
Ovunque il vuoto.

6 ottobre 2010

Cercasi anima nel vomito.

Mi sento apatico. Ho amato così tanto la più grossa stronza che avessi la possibilità di incontrare. E poi il dolore ha annullato tutto. Mi sento perennemente immerso in uno strato denso di apatia. Tutto d'un tratto è il vuoto totale.
"Andiamo all'Oktoberfest" mi ha chiesto un amico.
Sarei andato anche all'inferno pur di non starmi addosso. E in un certo senso è stato un po' la stessa cosa.
Mai avrei creduto di potermi svegliare alle 8 di mattina con il solo scopo di ubriacarmi di birra senza alcun ritegno. In realtà forse è meglio quello che svegliarsi alla stessa ora per andare a sedermi davanti ad un fottuto computer per metà della mia vita. E poi volevo crederci, volevo essere come gli altri, semplice, e felice tra tette in vista e birra da litro.
Il primo litro l'ho praticamente lisciato, il secondo sorseggiato. Dal terzo in poi è stato un massacro. La sbornia mi è salita come un pugno dell'orgoglio, e dopo aver finto per quasi tre ore che fosse la giornata più gloriosa di una miserabile vita, mi sono scontrato d'un botto con la constatazione che in realtà era una miserabile giornata di una miserabile vita.
Il fitto nucleo di tavoli, birre e tette si è eclissato. Sotto di me era rimasto il vuoto, e la mia incapacità alcolica di gestirlo. Ho perso il sorriso collaudato, la sicurezza e persino il contatto con la realtà. Non so cosa sia successo nell'ora di vagabondaggio selvaggio. So solo che un'ora più tardi avevo lasciato gli amici, e me ne stavo con Guiaio (il mio cane) steso sul pavimento di una cabina telefonica con gli occhi rossi di lascrime e il cuore che a stenti sopportava il senso di solitudine che mi mordeva.
Ho chiamato D. Non mi manacava, però era l'unica persona che conoscessi a sapere cosa siano le vertigini dell'esistenza. Se non avesse risposto sarei morto dentro quella cabina. Guaio avrebbe voluto leccarmi le lacrime, ma era troppo spaurito per alzare anche solo la coda.
"Salvami" ho chiesto con la disperazione di un condannato a morte.
"Come?"
I singhiozzi da bambino non lasciavano intendere chiaro. Non mi importava che capisse, in realtà sapeva già tutto. L'unica cosa che riuscivo a pensare era che finchè fosse stata al telefono con me non sarei morto. Il credito presto è finito. Credo di essere ancora seduto sul pavimento dall'odore di piscio di quella cabina di merda.
Guardo fuori, e vedo una ragazza con vestito tirolese passare abbracciata a due ragazzi, aveva il seno in vetrina e sembrava che ci fossero stati gli sconti. In una mano reggeva una birra. Al solo vederla ho vomitato tutto l'odio, la rabbia e la stanchezza che avevo addoso. Tra le varie cose mi deve essere uscita anche l'anima.