28 novembre 2010

Nessuno si salva dall'infanzia


Aprendo la porta di casa mi si sono avventati contro i ricordi della mia infanzia. L'avrò aperta milioni di volte con quella sacra sensazione di chi arriva ad un porto sicuro. Poi ci si allontana per un po' di più del necessario e subito non la si riconosce. Il salotto era immerso in un buio denso, frantumato solamente dalla fioca luce di una lampada da tavolo. Una figura immobile stava immersa nel divano, come facesse parte dell'arredamento. Il tubo catodico proiettava in quegli occhi disillusi un fiume di immagini e suoni che una volta avrei riconosciuto come parole. Ho appoggiato la giacca sullo schienale di una sedia con la cautela di chi non vuole rompere irriverentemente un rituale.
“Quante volte t'ho detto d'appenderla in entrata, sull'attaccapanni. È fatto apposta!”
Congelato con la mano pendente mi sono sottomesso all'ordine ricevuto. Ho raccolto la giacca e mi sono diretto nell'oscurità fino al posto indicatomi. Poi sono tornato sui miei passi, prendendo posto in un lato del divano.
“Come stai papà?” ho chiesto dimesso.
“Questi figli di puttana ce le vogliono far bere tutte” ha risposto senza distogliere lo sguardo dal televisore.
Mi sono schiarito la voce, quasi convinto di non aver articolato bene, o d'aver parlato più piano di quanto credessi. Poi mi sono immobilizzato per qualche minuto, cercando d'orientarmi in quel posto che quasi non riconoscevo più.
“Finalmente ho trovato un lavoro” ho detto facendomi coraggio.
Nessuna risposta, solo un vociferare indefinito che proveniva dalla tribuna politica. Lo stato d'emergenza perenne in cui versava lo stato da troppo tempo sembrava imitare la tensione drammatica del momento. Mi sono passato le mani sui pantaloni. Il frusciare ripetitivo amplificava il senso di disagio in quel silenzio che amplificava enormemente le distanze. Il respiro lento di mio padre, i suoi occhi fissi e rassegnati, quell'immobilità costante mi pesavano addosso come una cascata di sassi.
“Come faranno a pensare che ci sia qualcuno disposto a credergli” tuonò mio padre rompendo il silenzio.
“Non capisco come tu possa ancora stare qui ad ascoltare tutte queste stupidaggini” ho risposto sommessamente.
“E pensare che tuo nonno ci credeva così tanto nel partito”
“Erano altri tempi”
“Altri tempi un corno!”
Non me la sono sentita di proseguire su quel sentiero. Dovevo assolutamente sbloccare la situazione, accendere una luce, spegnere quel televisore, urlare se necessario, ma si, l'incomunicabilità mi stava ammazzando secondo dopo secondo.
“Ti spiace se fumo?” ho chiesto portando nervosamente la mano alla tasca.
“Da quand'è che fumi, scusa?”
“Più o meno da quattro anni”
“Guarda! Ma guarda te che facce da culo. Certo che bisogna averne di fegato a mentire con quel sorriso, fottuti bastardi”.
“È tutto uno show. Te l'ho detto, la televisione deve restare spenta” ho risposto in una nuvola di fumo.
“Finirai per pentirti d'aver iniziato a fumare. È veleno quello che respiri, te ne rendi conto? Finirai con l'ammazzarti se non smetti”
“Non ho l'ambizione di vivere cent'anni”
“Lo dici perché sei giovane, ma un giorno ti attaccherai alla vita come un folle”
“La tua non è più vita, papà, è un'attesa”
“Sono tutti dei figli di puttana. Ma gliel'ho detto al presidente. Io non mi tessero più se le cose non cambiano”
Ad un certo punto mi sono accorto che mio padre aveva rotto il suo immobilismo. La sua mano sinistra si muoveva lentamente nello spazio che ci divideva. Accarezzava debolmente il posto dove sedeva sempre mia madre quando ancora questa casa era viva. Un nodo alla gola bloccava il fumo, ultima risorsa. Ho preso il posacenere dal tavolino spegnendoci la sigaretta con la violenza di chi sta togliendo una vita, una vita che arde. Ho tirato un lungo sospiro cercando per quanto possibile di vuotare la mente, di rilassarmi, di rendermi meno ostile nei confronti di quell'atmosfera. La mano di mio padre si era stretta a pugno. Il divano presentava ancora un'infossatura come se qualcuno si fosse appena alzato, e il suo pugno cercava irrimediabilmente di colmare quel vuoto.
“Mi sono trasferito in un appartamento più grande, ora posso permettermi di vivere comodo. Il mio capo dice che c'è una buona possibilità di carriera se mi do da fare” ho ripreso come se nulla fosse.
“Hai notizie di tua madre?”
“Mi scrive di rado, ma credo stia bene”
L'immobilità stava minacciando di congelarci in quella situazione per sempre, il divano sembrava liquefarsi sotto il mio corpo, lasciandomi affondare fino al collo. Di nuovo ho reagito. Ho tirato fuori il pacchetto di sigarette, ne ho estratte due mettendomele entrambe tra le labbra. La fiamma dell'accendino ha lanciato un lampo sul volto di mio padre, e i suoi occhi sono sembrati muoversi lucidi verso la luce. Deve essere stata questione di un attimo. Ho acceso le sigarette.
“Tieni” ho detto bonario porgendogliene una.
“Non vorrai mica uccidermi” chiese mio padre girandosi di scatto. Era la prima volta da quando ero entrato che mi guardava negli occhi. Forse era la prima volta in anni che mi guardava negli occhi.
“Non vorrai mica vivere cent'anni davanti a sto fottuto televisore” gli ho detto scherzoso.
“Sono tutti dei figli di puttana” ha detto sbuffando una nuvola di fumo.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

crescere e constatare un'inversione di ruoli, pur nella sua normalità, ha un che di surreale. tu diventi l'adulto e loro regrediscono tornando bambini. pe quel che mi riguarda, ogni volta che torno a casa provo un misto di tristezza, tenerezza e orgoglio. per avercela fatta a diventare grande, nonostante tutto.
p.s. bentornato

Ragno ha detto...

La cosa che più mi fa rabbrividire è che sia una storia vera al 100%...
Nonché autobiografica...

Mina Vagante ha detto...

Nessuno si salva dall'infanzia ... ed è per questo che non potrò mai più vivere nella città in cui l'ho passata, ed è per questo che ogni volta che vado dai miei genitori l'angoscia mi devasta, mi trasfigura ...

Anonimo ha detto...

Leggo il tuo blog da pochi giorni. Racconti e scrivi in un modo emozionante.... Complimenti, continuerò a leggerti con piacere. V