26 settembre 2011

Lap Dance

Guaio rallenta sempre i miei passi, anche lui è in cerca d'amore. Non bisogna stare a chiedersi il perché lo cerchi con ossessività annusando gli angoli delle strade, o gli usci delle porte. Ognuno si muove come può.
"Dai cavolo, datti una mossa"
Il suo naso però continua imperterrito nella sua ricerca. Si passa una vita a cercare. Con qualche contrattempo siamo giunti al parco, un briciolo di respiro dall'assordante rumore cittadino, dal quel movimento frenetico senza senso. Trovo un po' di pace sotto un piccolo albero dal fogliame fitto, uno di quelli che non ti macchia di luce la pagina quando leggi. Guaio ha perlustrato qualche arbusto nelle vicinanze, poi si è seduto rassegnato a qualche passo da me: mi guardava, ansimava, annusava.
Dopo essermi acceso una sigaretta dopo lo sforzo per portarmi fin li, ho dato un'occhiata attorno a me, nella speranza di vedere se qualche altra anima schiva stesse consolando le sue ossa su un tronco di ramo, o tra le pagine di un libro che gli analfabeti chiamano "taglia vene". Tutto taceva. O quasi.
Sulla mia sinistra ho subito notato tre adolescenti. Non si poteva certo dire fossero anonimamente sedute a contemplare la natura: una di queste, decisamente più matura delle altre due, si è cimentata in un ballo famosissimo in quei posti in cui manifesti il tuo apprezzamento infilando uno dei vecchi "millini" nelle mutande della vergine di turno. Mi ha guardato dritto negli occhi lanciandosi i capelli di lato, poi si è lentamente alzata la maglietta raccogliendola sul seno e facendo ondeggiare lentamente i fianchi leggermente sovrappeso. Per evitare l'ipocrisia posso dirvi che se fosse stata un'aspirante velina probabilmente avrei pure pagato per il seguito dello show, ma il brufolame sparso e l'ostentazione de la femme fatale che non albergava in lei mi hanno distratto. E poi come avrei mai potuto non iniziare il mio nuovo libro: l'autore chiaramente morto suicida, un cocktail esplosivo per un lunedì mattina coi fiocchi. Cosa chiedere di meglio?
Stavo quasi arrivando alla fine della prima pagina, sfiorando quella strana magia che è la concentrazione, quando un nuovo elemento di disturbo s'è fatto avanti con prepotenza nel mio campo visivo: un gruppetto di immigranti s'era disposto a semicerchio in contemplazione delle natiche ondeggianti. Uno di loro commentava a voce alta in un dialetto italiano dall'accento arabo, probabilmente imparato nel migliore cantiere della città. Pure Guaio si era accorto della loro presenza, raggiungendoli con l'innocenza in faccia, e la pallina in bocca.
"Giocate?" gli ha chiesto lasciando la pallina cadere ai piedi del più spavaldo del gruppo. Ho cercato di rimanere calmo spergiurando il peggio, ma le mani già sudavano come a chi ha già capito tutto. Il ragazzo ha colto la sfida di Guaio raccogliendo la pallina da terra e lanciandola casualmente verso la ballerina di lap dance lattante. Una volta, e Guaio la va a prendere. Due volte, e Guaio la va a prendere. La ballerina, incitata dal pubblico non pagante ci dava dentro: il principio di ciccia che traboccava dai jeans stretti deve aver avuto su quei ragazzi un richiamo ancestrale visto che poco c'è mancato che il gruppetto non iniziasse a fischiare. Al terzo lancio di pallina ho chiuso il libro.
"Guaio non è uno strumento d'imbarco, non lo usare" gli dico cercando di restare il più cordiale possibile. Nel momento stesso in cui il gentiluomo avrebbe voluto spiegarmi le sue ragioni usando la mia faccia come un sacco da pugilato qualcosa l'ha distratto: la ballerina aveva smesso di sculettare.
"Guarda, quello li non è il tuo ragazzo?" le ha chiesto una delle compagne che fino ad allora se ne stava nell'ombra, indicandole un groviglio umano di lingue e mani stesi sul prato poco più in la.
"Quel gran figlio di puttana" ha risposto lei raccogliendo lo zaino da terra e lanciandosi verso l'angolo opposto del parco.
Ho approfittato della distrazione per raccogliere la pallina, chiamare Guaio e allontanarmi il più in fretta possibile. I ragazzi hanno subito la fine dello show supplicando per un bis, ma la femme fatale aveva già una lacrima a lacerarle il cerone di trucco.
"Bastardooo..." ha sbraitato abbassandosi la maglietta.
La mancanza d'amore è una piaga, il confonderlo con il sesso un fraintendimento dai risvolti squallidi.

22 settembre 2011

orizzonte

Mi sono spinto a passeggiare fino al bordo del mare, al limite della terra calpestabile e inevitabilmente ho dovuto fermarmi. L'orizzonte sfumava indistinto e cielo e mare sembravano essere una cosa sola, un abbraccio incondizionato, una mescola di colore, un abbraccio silenzioso e confuso. Ho sentito l'angoscia dell'indistinto assalirmi da dietro, da dentro. Era una solitudine sorda, vuota, a bottoglie sul bagnasciuga, conchiglie rotte sotto i miei piedi. Indietro non posso tornare, avanti solo gelida acqua fino alle nuvole.
Sento pesante il respiro che mi tiene in vita, che mi placca in spoglie mortali e stanche.
Rassegnato ho fatto dietro front camminando ad occhi bassi. Sono tornato al conosciuto e noioso mondo di sempre senza riuscire a strappare nessuna certezza ulteriore del dovere incondizionato ad arrivare a domani. Una telefonata spezza il silenzio, la speranza s'attacca alla mia mano che ansiosa cerca di estrarre il telefono di tasca. Qualsiasi voce mi avrebbe salvato, qualsiasi richiesta sarebbe stata accettata pur di mettere fine a questo dialogo ininterrotto tra l'io e il me. Una battaglia sanguinaria di dubbi e irrimediabili certezze.
Mi stavano chiamando dal lavoro. Ho messo in silenzioso, e ho riposto il telefono nella tasca.
Arrivato alla strada mi sono seduto su una panchina. Nelle scarpe sabbia.
Continuo a ripetermi che domani inizierò nel modo corretto, basta con questa lotta, ho bisogno di una tregua.
Domani, domani.

11 settembre 2011

lucertole

L'estate per molti è il periodo dell'abbandono dell'umano. Già nell'antichità a partire dal solstizio d'estate gli esseri umani regredivano allo stato animale per concedersi il piacere della lussuria, ma all'epoca, avendo appena conquistato la terra dopo aver abbandonato gli alberi, si poteva vedere l'evento come un trionfo meritato. Ora che i cicli mestruali non seguono più l'andamento delle stagioni, ma si ripetono regolari ogni mese, non credo esista più la necessità per il genere umano di lasciar sopraffare l'istinto alla ragione in modo così eccessivo durante il periodo estivo.
Qualcuno potrebbe giustamente credere che anche il mio silenzio durato tutta l'estate sia attribuibile a copule e ululati, ma mi spiace deluderlo. Ho dovuto solo fare le scorte di intolleranza per tornare alla carica quando i vostri cervelli tornavano ad essere più ricettivi.
La lunga pausa ha reso possibile una rivisitazione degli inutili schematismi mentali di cui sono assiduo inventore, per tornare a riproporvi nuove prospettive, più o meno banali, ma che sempre possono giovare ad una mente malata come la vostra che mi legge, che ha bisogno di rassicurazioni continue: "no, non siete soli".
Non che io sia un grande fan dei Pink Floyd, ma sugellare l'ironia del rientro con un tributo al loro disco Animals. Ecco a voi le lucertole.
Le lucertole sono esseri bipedi, per lo più appartenenti al sesso femminile, anche se nell'ultimo decennio gli esemplari maschili di questa specie hanno quasi annullato il gap, la cui unica attività durante i mesi estivi è l'esposizione solare. L'evoluzione li ha dotati di apposite mascherine fascianti per proteggere l'organo visivo dai raggi solari. Gli esemplari dominanti, in età adulta, possono essere dotati di mascherine che coprono fino al 95% della superficie del viso. La loro maggiore preoccupazione è procurata da una tostatura omogenea e costante delle squame da ottenersi mediante il cospargimento di unguenti a base di vanità, narcisismo e spossatezza mentale. Il segreto per lo stoicismo solare è l'inibizione pressochè totale dell'organo celebrale.
Vorrei rassicurare i lettori che maggiorni informazioni sulla specie verranno fornite nell'arco dei prossimi mesi. Per il momento l'unico consiglio che posso darvi sulla sicurezza in caso di incontro infortuito è: non muovetevi, i rettili percepiscono solo le cose in movimento.

4 luglio 2011

Girotondo

Alla fine della giornata mi sono seduto sulla veranda di casa a fumare una sigaretta. Mia madre mi si avvicina con l'aria di chi sa cosa c'è che non va:
"Vatti a prendere qualche camicia nuova, sembri un disperato"
"Sono un disperato"
Poi ho finito la sigaretta e me ne sono andato. Ho preso Guaio con me, e abbiamo iniziato a camminare. Passi su passi, pensieri su pensieri, nessuna meta, nessuna via d'uscita. Solo un inesorabile girare in tondo. Questo non lo dico solo in riferimento a questa serata. Ho l'estenuante impressione che tutto sia solo un girare in tondo tutto il tempo. Ad un certo punto mi sono seduto sul ciglio della strada, Guaio se ne stava steso al mio fianco con il muso appoggiato sul mio ginocchio. Sembrava tranquillo, sembrava non preoccuparsi troppo del fatto che stessimo andando da qualche parte oppure no. Dove stavo io lui sentiva casa. Sono il suo centro gravitazionale.
"Dimmi che tu non mi lascerai mai"
Mi guardava alitando con la sua lingua di murshmellow rosso. Gli ho accarezzato e baciato la testa con disperazione. Poi mi sono messo a guardare i passanti. Sembravano sempre gli stessi, che tornavano dopo un giro di boa.

5 giugno 2011

politichese

La sveglia ha suonato prima del solito oggi, impegni di vita pratica mi hanno smosso dalla mia blanda routine quotidiana per trasformarmi in una di quelle persone che credono che avere 100 euro in più in banca valga lo sforzo di alzarsi con ancora sonno addosso. L'unico vero lato positivo è che a quest'ora trovo ancora i cornetti caldi nei bar delle formiche operaie. La sintomologia del giorno diverso era nell'aria già da prima che sentissi le futili chiacchiere da strada. Incredibile come i più grandi dibattiti filosofico politici si consumino davanti ad un bicchiere di vino nel più squallido bar di provincia (quello che io frequento normalmente).
Tutti avevano un gran chiacchierare, confabulare, stupirsi in acuti fuori luogo e fuori tempo. Normalmente se accade qualcosa che attira l'attenzione generale io cerco di defilarmi nel più breve tempo possibile. La morbosità con cui la gente specula sulle vicende altrui è tarrificante. Morbo, morbo, morbo.
Il tema della mattinata sono i risultati delle elezioni politiche locali: il centrosinistra ha battuto inaspettatamente il centrodestra berlusconiano affarista. Milano è caduta in mano ai rossi che dalla russia più profonda hanno attraversato mezza auropa per giungere nella città della moda per imporre a tutti basco e pellicciotto.
Al leggere la testata del giornale ho sentito un buco nell'anima. Una di quelle sensazioni di vuoto e vertigine che ti scavano dentro fino ad amplificare l'eco del nulla. Alcuni operai seduti ad un tavolo bevendo prosecco di bassa qualità esultavano peggio che se l'Italia avesse rivinto i mondiali di calcio. Guardavo i loro occhi pieni di speranza, così lucidi da lasciar trasparire una fiducia incondizionata verso il grande cambiamento che si stava producendo. La sinistra ha dato un colpo di coda, e non solo è viva, ma ha pure vinto.
Ho bevuto il mio cappuccino mentre era ancora troppo caldo, scottandomi la lingua. Ho pagato rapido il conto senza nemmeno mangiare il cornetto alla cioccolata che pregustavo come unico premio per la levataccia. Uscendo dal bar mi sono reso conto di come la gente viva ancora dentro schematismi obsoleti, di come i nostri governanti siano riusciti con un colpo di scena a rimestare speranze e illusioni. Mi rendo conto di come nessuno in sto cazzo di paese si renda conto che il teatro della politica è lo show più retribuito del mondo, di come noi siamo solo fornitori di sudore. Ha vinto la sinistra a Milano, e allora? Credete che affarismo e cementificazione finiranno? Credete che smetteranno di costruire centri commerciali? Pensate veramente che da domani mattina il mondo sarà meno ipocrita e meschino di come lo conoscete oggi? E toglietevi quel cazzo di sorriso dalla faccia che mi avete già rovinato la giornata.

3 giugno 2011

ciò che non si vede

E' arrivata con un maglione sformato, rosso, uno di quegli indumenti che ti metti quando sei a casa, in divano. Portava dei pantaloni della tuta. E' stato un brivido pensare che solamente credesse d'avere la confidenza per potersi vestire così con me. Era meglio di vederla in ghingheri, o nuda, o in qualsiasi altro modo. Mi sentivo a casa, con lei, seduti nell'intimità delle nostre cose. In mondo non esisteva più. Abbiamo iniziato a camminare lungo il lato esterno del parco del centro, in senso orario. Parlavamo, e io mi sentivo sempre così terribilmente in colpa per interrompere i suoi discorsi con la mia mania di protagonismo, come se fossi sempre sul punto di doverle dimostrare che valgo, che avrebbe una buona ragione per stare con me. Al tornare nel punto in cui ci siamo incontrati abbiamo proseguito in circolo iniziando un secondo giro del parco.
Nel realizzare questa cosa mi continuavo a ripetere che se fossi riuscito a farle fare anche un terzo giro con me, sarebbe stata mia per sempre.
Al terminare il secondo giro non ho saputo resistere, come se l'idea di poterla aere fosse troppo, una vertigine incontrollabile, e sneza interpellarla ho tirato dritto, verso via Roma, verso il momento in cui l'avrei salutata per sostituirla con una dilaniante nostalgia. L'ho guardata sfilarmi lontano nella sua esile figura. Aveva la sua solita camminata di chi non ha fretta perchè non ha destinazione. Si è girata una volta, ma non per guardare me, qualcosa alla mia sinistra l'aveva attirata. Se solo sapesse che le ho regalato il dono dell'ubiquità m'insulterebbe per la carcerzazione forzata del suo doppio nel mio cuore. Se ne va ignara del sangue che verso ad ogni parola non detta, ad ogni bacio bramato ma non consumato.

27 maggio 2011

Cammina anche tu in una valle di lacrime, ma solo con scarpe Geox.

Se non sapete per chi sto scrivendo ora è meglio che smettiate di leggere subito. Non importa conoscerla, bisogna sapere cosa è lei per me.
Me ne sono stato seduto sui gradini di una casa per quasi una mezz'ora. In una mano reggevo il cellulare che, nonostante fosse ultra tecnologico, non aveva incrementato la qualità dei messaggi che mi arrivavano; dall'altra chiaramente una sigaretta accesa. La guardavo consumarsi facendo attenzione a non far cadere la cenere. Ogni boccata avida la faceva scintillare davanti ai miei occhi con un leggero bruciore alla punta del naso. Lo sguardo sempre e solo li, a qualche centimetro da me. Il resto era di un  vuoto colorato, fatto di case sfuocate, vetrine sfuocate, alberi sfuocati, passanti sfuocati. Forse era tutto regolare, e l'unico fuori fuoco ero io.
Il tempo mi stava addosso come un maglione in lana pesante il giorno di ferragosto. Pizzicava ad ogni minimo movimento della mia anima cadenzata da un respiro lento ma grave.
Improvvisamente la mia attenzione è stata catturata da un volto di anziana. Se ne stava seminascosta a spiare il mondo da dietro una tenda all'ultimo piano di una palazzina. La sua mano faceva ombra nella parte più profonda del suo viso, ma la bocca dichiarava le ferite subite in un'espressione poco composta. Sembrava non distogliere lo sguardo da un punto fisso qualche decina di metri alla mia sinistra, in corrispondenza di una fermata d'autobus. L'ho osservata come se non avessi davvero di meglio da fare, ed in realtà era davvero così. Attendevo con lei, come lei, che la vita si decidesse a muoversi, che si decidesse a parlare chiaro. La mano del cellulare sudava appena sotto l'immobilismo più totale.
Improvvisamente dall'angolo in fondo alla strada se ne esce rumoroso un bus di linea. Uno di quei banalissimi bus stracolmi di zombie che cercano rifugio nella propria casa dopo la fatica del giorno. Mette la freccia e si ferma giusto nel punto osservato dall'anziana signora. Le porte si aprono e se ne escono due mocciosi con l'aria spavalda, una signora con le borse della spesa, un ragazzo di colore con tutto il nero della sua tristezza, ed un anziano signore. Un fremito ha perturbato la smorfia della signora. L'anziano s'è fermato un instante, di spalle alla scena, prima di infilarsi il cappello in testa e marciare nella stessa direzione da cui era arrivato con l'autobus. Aveva almeno quattro occhi incollati sulle spalle ad osservarlo increduli. Due erano i miei. Quando ormai era diventato una figura distorta dal riverbero del calore sull'asfalto, s'è fatto inghittire da una trattoria. La mia sigaretta ha perso la cenere in un fremito assordante. Alla finestra non c'era più nessuno, e il silenzio di una città semideserta è stato infranto dal cicolare ritmico e metallico delle tre persiane della casa della vecchia. Un motorino elettrico le spingeva tutte e tre verso il basso come fossero state tre ghigliottine riprese al rallentatore. Una sincronia perfetta per un suono così straziante. Si sono sigillate ben oltre la linea del suolo, schiacciandosi fino a far morire ogni spiraglio di luce. Poi il silenzio. Ho spento la sigaretta ormai consumata. Mi sono avvicinato al campanello di casa. La signora faceva Collati di cognome. Poteva essere anche un altro, che importanza aveva? Arriva un messaggio nel mio cellulare:
"Domani mattina ho lezione presto, non so se riesco a uscire sta sera".

14 maggio 2011

evasione

Dall'altro lato della miseria che attanaglia tutti c'è la noia. E così prendiamo il nostro corpo e lo spostiamo nello spazio in cerca di un po' di refrigerio, di un briciolo di avventura, o salmente di un po' di speranza che succeda, finalmente, qualcosa. Come in un imbuto la gente viene convogliata verso i cliché che rindondanti da più parti soffocano quel concetto di libertà che vorrebbero perseguire.
"Che fai questo fine?"
"Spiaggione, no? Poi aprono una nuova disco!"
La massa rassicura, il branco omologa, abbassa il minimo comun denominatore delle aspettative umane a due chiacchiere di circostanza, un mojito pagato 8 euro e una scopata mediocre nel parcheggio del bar.
"Com'è andato il week end?"
"Il delirio"
Il delirio è l'assoluta convinzione di andare da una parte mentre si sta fermi, fermi all'era del bronzo, o peggio, all'era del centro commerciale.
Me ne sto seduto nel mio abitacolo fumando con i finestrini chiusi, l'aria condizionata aumenta l'effetto malsano del tabacco intasando il sistema di filtri. Il puzzo non mi molesta, lo sopporto come parte integrante del panorama di miseria che mi circonda. Auto una di fianco all'altra in una processione lenta e inesorabile verso il mare. Come il salmone risale la corrente in cerca di spargere il suo seme, così il lavoratore migra verso il mare cercando di consolare la propria solitudine con alcol e sesso a buon mercato.
Al mio fianco, nella corsia dei prudenti, un'utilitaria stracolma di attrezzature da campeggio e di speranze si fa strada nella determinazione a conquistare il west. Il capo famiglia, capo branco guida con lo sguardo di chi sta compiendo il suo dovere anche nel giorno in cui avrebbe voluto starsene a bere birra e guardare le partite di calcio in tv. La rumorosa famiglia mette a soqquadro i sedili posteriori mentre la madre isterica agita le mani cercando di imporre la disciplina necessaria ad un esodo di tale calibro.
Tutti in direzione del mare, io compreso. Una lunga scia di miseria e speranze a buon mercato che ritualmente si ripete ogni fine settimana, perpetuando la sacra illusione che se tutti vanno da una parte un motivo ci sarà.
Ed io, che ho come unica sfortuna quella di viverci al mare, mi mischio a quest'orrore infernale legittimandolo, mentre cerco solo di tornare a casa.

2 maggio 2011

Dalla mattina alla sera aspetto che un sorriso sia rivolto a me senza che nessuna nube oscuri la vista delle stelle. Sanguino ad ogni secondo, muoio nell'attesa di ciò che non avviene e mai avverrà. T'amo di stomaco, di ventre, d'invidia per quello che al mio posto non sa che tesoro possiede.
Ti ho detto di non seguirmi, di non starmi vicino, io che con questo fuoco oscuro rischio di bruciare il tuo candore. Te l'ho detto con l'inganno, con malizia, come quello che dice no, ma intanto chiede, spera, aspetta e sanguina.
Non so se tu m'abbia preso alla lettera, o se solamente ti sei persa nei labirinti della vita, o più semplicemente ti sei incantata a guardare occhi che non sono i miei.
Sono infame, sconclusionato e duro nel mio vivere così avidamente un'intensità che fatica a svelarsi. "Non ci si può fidare di te" mi hai detto tra le mille parole che vomitavi senza senso apparente.
Mi chiedo come si possa essere così ciechi, come si possa rifuggire la vita senza assaggiarla, come si fa ad esser certi d'amare così follemente il pistacchio se non si è provato null'altro. E così me ne vado, con il mio strascico di dolore, inghiottito dall'ombra che così cara copre le mie lacrime dure. Sparirò, e questa vota mi costringo essere per sempre, anche se mi sembra così folle. T'ho urlato contro il mio amore incondizionato, son tornato vergine per aspettare il tuo corpo i tuoi baci che finora ho solo immaginato. Se tu solo sapessi quanti attimi di vita t'ho dedicato senza che tu me lo chiedessi. Se solo sapessi quanto abbiamo vissuto, tu ed io, senza che tu non ti sia nemmeno mai mossa dalle tue certezze, sicurezze. Ma cautelarsi nei confronti della vita è come mettersi un salvagente durante il diluvio universale. Così tu sfiori dolcemente la superficie dell'acqua quando all'orizzonte sfidano nubi tempestose, ed io, perforato dal troppo dolore annego lentamente fino ad adagiarmi nel fondo. Sono un relitto buono solo per i vermi. Sono un cuore che ama sempre e solo a senso unico. Corri spavalda, va' pure dove ti pare, quando l'inerzia consumerà stanca la sua spinta forse capirai, o forse semplicemente avrai già dimenticato d'essere stata l'arma del mio delitto.

5 aprile 2011

lo spettacolo non mi ineteressa.

C'era ansia in casa prima del tuo arrivo. La presenza di Brixen non riusciva ad alleviare la tortura dell'attesa. Le poche chiacchiere di circostanza erano ripetutamente interrotte dai miei voli pindarici che dirottavano ogni argomento verso qualcos'altro prima che fosse irrimediabilmente tardi. Qualche sigaretta, qualche preparativo per la cena a seguire. Tre ragazze, un amico, io e l'ossessione del momento: tu.
Poi sei arrivata con un corteo di comari, ombre della tua luce. E la cena è iniziata tra qualche chiacchiera e una forte carenza di confidenza.
Come un trampoliere mi son reso funambolo sui discorsi e i silenzi per tenere salda quell'atmosfera che avrebbe voluto essere tua schiava. Ho sperperato, dissipato, consumato me stesso in inutilità il cui unico fine era il venerarti. Ogni parola, ogni gesto ogni pensiero che sudava dalla mia fronte era in realtà rivolto a te. Tu osservavi il cellulare, assente da ciò che accadeva, ma soprattutto distante da me. Ogni volta che nell'osservarti non notavo l'ossessività con cui lo facevo io era uno schiaffo, una scheggia nel cuore che lentamente mi fiaccava.
Che classe d'uomo mondano sono, così disinibito e distinto nel conversare amabilmente. La stessa disinvoltura d'un pagliaccio che per ridere ha bisogno di tatuarsi in faccia un sorriso. La musica continuava a sembrarmi tutto il tempo o troppo bassa o troppo alta. I tuoi occhi, sole del mattino, illuminavano solo l'equatore, ed io mi sentivo il polo in ombra durante il semestre di buio. Ma qui gela tutto, ghiaccia sotto il peso della tua indifferenza.
Tutto è stato rapido e asettico, come una cena d'affari. La cordialità così finta e sforzata m'ha fiaccato oltre modo, quasi a pensare d'averti abbandonata nel lato oscuro della tua luna nera. La mia ironia t'offendeva nel porci l'uno di fronte all'altro. Ciò che volevo era renderti mia complice, volare oltre le apparenze, le aspettative, trionfare nel proibito perché si può solo regnare all'inferno visto che nel paradiso il posto d'onore è già occupato.
Il momento dei saluti l'ho creato d'improvviso, nella speranza di scorgere un po' di sgomento nel tuo sguardo, ma nemmeno il distacco sembra toccarti più. Odio vederti con altra gente, odio che le tue attenzioni siano all'altro capo d'una linea telefonica, odio sapere che possa esistere qualcos'altro che non sia io, per te. È per questo che me ne andrò.

31 marzo 2011

Mutismo

Non so cosa dirti quando mi interroghi sugli aspetti pratici della vita. Non so cosa dirti quando ti aspetti che con una parola risolva un problema, che metta le cose in una luce più chiara. Non so cosa potrei dirti se mi fissi con perplessità cercando di capire fino a che punto sto portando una maschera.
Stiamocene pure qui seduti a fumare sigarette, disegnarci pensieri e sogni e illusioni e altro, ma non sperare mai che sappia la parola "che squadri da ogni lato l'animo nostro informe". Non ho parole di fuoco, ne verità da condividere. Ho un cuore, due occhi per guardarti e un solo modo per fondermi in te.
Mi scruti con la coda dell'occhio indagando le mie azioni come se fossero rivelatrici di ciò che possiedo, nel profondo di me stesso. Fai delle tue osservazioni supposizioni che un giorno diventeranno pensieri, teorie ed infine strumenti per guidare i tuoi pesanti giudizi sopra la mia testa.
Se dovessi cercare una parola con cui vorrei donarti ciò che sono, questa parola sarebbe "perdono". Ma le scuse non sono cose da fare, nessuno dovrebbe scusarsi mai, soprattutto per ciò di cui non ha colpa: ciò che è.
Alla fine i tuoi baci si trasformeranno in siringhe ripiene della più dolce droga, ed io finirò per sentirmi una cavia da laboratorio tra le tue mani. Un giorno mi sveglierò, vedrò che quei rami fitti che sbucano lievi sulle verande delle finestre sfioriranno fino a cristallizzarsi nelle sbarre della mia gabbia. Io, cavia, come unica salvezza avrò la fuga, anche a costo della morte: perderti.
Mi sono aggrappato a te, nel silenzio dei nostri corpi per cercare un rifugio di complicità, non una disciplina di vita. Io che ho assaggiato la morte con la mente e con la bocca, ti guardo implorante perché tu mi dia la vita che mi spetta e che (probabilmente a torto) credo di meritare. Tu mi guardi ancora e ancora con quel punto interrogativo sulla testa.
Tu che anteponi il dopo all'ora e adesso, tu che hai provato a promettermi di non avere tempo ne luogo senza essere all'altezza di ciò che promettevi. Tu vittima di troppa lussuria e poca lungimiranza, che da uno come me è già tutto un dire; tu oggi sarai testimone del più triste degli addii. Ciò che lo differenza dagli altri è che molti, troppi addii sono sopravvalutati, si trasformano senza pretese ne pretesti in arrivederci, sono revocabili.
Ciò di cui sarai partecipe con i tuoi occhi interrogativi sarà un addio esclamativo!

25 marzo 2011

Antonello da Messina

Gli occhiali da sole non riescono mai a schermare completamente l'invadenza del sole primaverile. La neve si frantuma e il disgelo lascia vedere ciò che per mesi, se non per anni, è giaciuto sotto il freddo peso. Ho passeggiato per la città lentamente, condizionato dall'andatura zoppa del piccolo Guaio, da poco operato ad una zampa. Lo osservavo spingersi in avanti verso la vita, un passo più in la, con l'ostinazione di un cucciolo di un anno e mezzo. Lo sguardo mogio fissava il suolo appena qualche centimetro avanti al naso, ogni passo era quasi un salto che sperava di lasciarsi il dolore alle spalle fuggendogli poco più avanti. Per la prima volta da quando passeggio con Guaio non riuscivamo a sorpassare veloce i pedoni, che ora mi scansavano come un infermo, come fossi unto. Più volte ho evitato i loro sguardi per paura: paura che vedano la zoppia della mia anima.
D'un tratto, senza che nulla lasciasse presagire una simile intenzione, Guaio s'è fermato in mezzo alla strada. Non è stata una delle sue normali soste, una di quelle per prendere fiato, o per mollare una pisciata rapida, nemmeno una pausa per grattarsi l'orecchio. Guaio s'è semplicemente immobilizzato, ha alzato il suo piccolo muso bianco e con occhi languidi m'ha detto: "io mi fermo qui". Il dolore che si porta addosso l'ha atterrito infine. Il fottuto dolore ha vinto anche contro la sua energia, contro il suo innato amore per la vita, per le corse, per quella pallina che per un lungo mese non potrà vedere. Guaio s'è inchiodato in mezzo alla strada.
Non c'è voluto molto perché la frenesia del mondo reale venisse a disturbare, senza alcun tipo di sensibilità, la tragedia che si stava consumando in quei pochi kili di tenerezza. Mi sono chinato su di lui, gli ho afferrato il muso con entrambe le mani proteggendo la sua disperazione, la sua stanchezza, la sua rassegnazione.
"Nemmeno io ce la faccio più, ma tra qualche passo potrai riposare" gli ho detto piano.
Le auto avevano già iniziato a strombazzare violente contro l'ostacolo che rappresentavamo. Alcuni passanti mi osservavano discutendo tra di loro sul perché fossi chinato immobile di fronte al mio cane, in mezzo alla strada. La tragedia non sceglie mai un posto per esplodere. Accade e basta. Il vociferare e le occhiate storte si facevano più rumorose dei clacson delle auto e degli insulti non detti. Ma io non mollavo il muso di Guaio. Intanto i passanti stavano sperimentando quella solidarietà sparlante di chi assiste ad una tragedia. Il dolore ha il suo macabro fascino.
Saranno passati due minuti buoni, forse un'eternità, prima che Guaio alzasse il culo dal suolo rincuorato da un po' d'amore. Con un sorriso l'ho guardato negli occhi smarriti. Rialzandomi ho gentilmente mostravo il dito medio a quel fottuto mezzo direttore di banca che dall'alto della sua cravatta colorata mi guardava impetuoso. L'abitacolo era così pieno di frustrazione e rabbia che ho sentito una fitta al cuore quando i nostri occhi si sono incrociati. Il mio dito imperativo stonava con la compassione che ho provato nel vederlo così perduto in una corsa per non andare da nessuna parte. Ma il dito non l'ho abbassato finché non è arrivato l'insulto. S'era sfogato, liberato della sua rabbia, e io mi sono sentito un po' meno in colpa.
Arrivati sul marciapiede Guaio è crollato al suolo in cerca di pace.
"Riposati finché vuoi, io sto qui con te" gli ho detto nella speranza capisse.
Mi sono sentito il suo angelo nero, che non sa fare i miracoli necessari, ma che sa dove mettere il cuore. Nell'arco di quei cinque minuti non avevo controllato il cellulare. Francesca non m'ha ancora risposto. Mi sono voltato in cerca del mio angelo, ma non c'era già più nessuno.

23 marzo 2011

L'appiglio

Lo so, ho un problema con la caducità delle cose. Così invento illusioni per galleggiare sulla realtà. Come dice una saggia amica, sono trappole, di cui si diviene vittima non appena le si crea. Lotto all'ultimo sangue per non guardare, per non vedere il baratro che si cela dietro alla vita. Siamo cibo per vermi, e non posso sopportarlo.
Mi aggiro alieno per le strade illuminate dalla primavera e sento la vertigine dell'esistenza ad ogni passo. Ogni sguardo che mi tocca lo assorbo nel buco nero che mi porto dietro, e ciò che posso restituire è così poco che quasi me ne vergogno. Per le strade le vetrine sono tappezzate di bandiere italiane. L'ipocrisia del nazionalismo mi insulta da tutti i lati. 150 anni di vergogne dovrebbero passare in sordina. Non mi sento italiano, non mi sento credente, non mi sento pensatore, non mi interessa lo sport, non trovo piacere nelle discussioni che sempre più spesso porto avanti più come un dovere che come qualsiasi altra cosa possano essere.
E così ti cerco, ti cerco in ogni mio pensiero, ricordo, speranza. Ti cerco per le strade che brucio al mio passaggio, ti cerco nelle solitudini che mi sfiorano, ti cerco nell'inferno disperato che vedo attorno a me. Sei il numero che manca alla mia rubrica, il volto di cui ho bisogno ancor prima di vederlo, sei quel cancro che vorrei contrarre per sopravvivere alla sterilità del mio presente. Ma non ti trovo.
Questa città sembra illuminata da un sole al neon, da ospedale, malato e crudo come un tramonto senza nuvole, come un cortile senza le grida dei bambini, come una domenica di pioggia in cui l'umido delle strade intacca la presenza della vita. Morrissey canta che ogni giorno è come se fosse domenica. Voglio incontrarti per iniziare la mia settimana, giorni feriali uno dopo l'altro, pur sapendo che prima o poi anche la settimana finirà, e non mi importa sapere di quanti giorni sarà fatta, purché tu possa arrivare a dirmi che la mezzanotte è passata, che prendendomi la mano mi dica che sei qui, al mio fianco, a combattere con il furore di un cavaliere errante contro il marcio che ci atterrisce.
Fatti avanti con il tuo passo esile e incrocia il mio cammino. Sarò pronto al tuo cenno a scatenare l'inferno per poi fuggire con te in un angolo remoto del paradiso. Ho baci da dare, carezze da fare, sorrisi da regalare e chiacchiere chiacchiere chiacchiere con cui riempire il tedio che ci assedierà. Ma non ho bocca da baciare, petto da carezzare, e occhi che possano vedere il mio sorriso.
Che smettano i raid sul mio cuore, che arrivi quel po' di pace che sarà l'amarti. Tu che con la tua sola presenza sarai l'appiglio su cui potrò fare affidamento per non scivolare oltre.

2 marzo 2011

arentao

Mi sembra così strano constatare ch'è già passato un mese dal mio ultimo post. Vorrei avere almeno qualche buona scusante da offrire al mondo, o almeno a me stesso, per questo fatto increscioso. In realtà non esiste un a vera motivazione alla base. Mi sono semplicemente arenato. Devo aver toccato accidentalmente il timone della mia vita, seguendo ciò che mi diceva il cuore fino a ritrovarmi piantato su di una spiaggia desolata senza poter più invertire la rotta. Molti mi sono passati vicino, con le loro macchine fotografiche, i loro consigli pronti all'uso. Io come un pachiderma zoppo me ne stavo li, silenzioso e sorridente, ad arrugginire. La salsedine e il tempo mi corrodono dal di dentro, ed io resto inerme sotto il peso degli eventi. Uno spettatore passivo e inerme. In questo ultimo mese ho passato metà del tempo a cercare di reagire, di trovare la via del mare aperto. L'altra metà l'ho passata a chiedermi dove me ne sarei andato se avessi avuto ancora acqua a bagnare le mie eliche, e non dura e fredda sabbia. Mentre pensavo, mi ubriacavo, mi drogavo mi convincevo d'aver ritrovato una serenità perduta, ma era solo l'ebrezza di un oblio comodo e a portata di mano. In realtà la vita mi diceva al risveglio che nulla, in fondo era cambiato.
Scrivi notturno, scrivi fino a consumarti le dita. Scrivi merda se necessario, è l'unica cosa che in fondo ti interessi veramente, nonostante gli handicap, il poco talento, la mancanza di idee originali. Scrivi notturno per mangiare della tua scrittura, del poco che hai da offrire. fiato sprecato, energie buttate, sperperate in imprese fallimentari, o in sogni così distanti dalla realtà oggettiva da diventare incubi.
Me ne sto qui, a percepire la mia grossa mole arenata in una spiaggia periferica della vita dove nemmeno il più folle dei nudisti andrebbe a bagnarsi. Me ne sto qui, a contemplare il mio fallimento senza essere in grado di cercare di reagire, senza voler reagire. Senza trovare un vero motivo per reagire.
Scrivi notturno, fallo anche senza senso, fallo disperatamente, come se fosse proibito, ma scrivi, perchè se te ne resti ancora un po' in silenzio finisci per dissolverti nella merda che ti circonda, perchè sarai rifugio per parassiti vari che ti finiranno dal di dentro.

4 febbraio 2011

passi

Cammino per le strade vuote, le serrande abbassate, luci spente alle finestre e balconi chiusi. Negozi come gabbie piangono da dietro vetrine impolverate che portano giorno dopo giorno la miseria verso il centro. Penso che un giorno inghiottirà tutto.
Guaio raddoppia i miei passi con le quattro zampe agili e sottili di un cucciolo che segue un'unica pista: la mia. Se sapesse che non so dove lo sto portando, e che scelgo la via scappando da me stesso e dalla mia solitudine forse si fermerebbe, o cambierebbe direzione.
Osservo sempre di più il suolo che uniforme sfila sotto i miei occhi assenti, e la cima degli edifici, che di giorno vengono illuminati dal sole e dal silenzio mi sembrano sempre più alti, inarrivabili. Mi faccio piccolo e scivolo via senza ombra nell'oscurità dei portici. Le mani in tasca frugano tra la sabbia che abbonda come le incertezze nella mente.
D'improvviso una ragazza sbuca davanti a me, sfidandomi nella mia direzione con lo sguardo. La sua figura esile mi rassicurerà per il tempo necessario ad oltrepassarmi, dopodichè torna estranea e resta solo la mia coda dell'occhio ad osservarla come una nave che s'allontana. Naufrago in questo oceano vasto di solitudine al ritmo sordo dei miei passi asimmetrici. Guaio ogni tanto lancia messaggi d'urina sui muri, impulsi per essere trovato, perchè qualche cagnetta rognosa possa giungere fino a lui raccogliendo la scia del suo spostarsi confuso, disordinato. L'ora delle chiusure dei bar non la sopporto, gente a flotti viene vomitata da porte secondarie. Scopati via dopo essere stati spremuti delle pecunie duramente sudate e presto svanite. Le scie d'alcool svaniscono nell'aria lasciando un solco nelle mie narici. Inevitabilmente l'odore si trasforma in quello del sesso consumato poco e male in camere fredde, asettiche di qualche hotel economico di periferia. Luci al neon rimbalzano nella mia mente senza lasciare scampo. Mi stringo il bavero sul volto esanime e allungo il passo. Voglio fuggire via da questo vento di morte che soffia sulla candelina che fievole muore dentro di me. Cerco, cerco senza sosta un po' di legna per riattizzarlo, lo cerco negli occhi d'una ragazza che non conosco ancora, e che per questo mi regala speranza. Mi accontenterei anche solo d'un po' di carta, che brucia forte, ma veloce, ma che allunga per un poco l'agonia e l'angoscia di chi vive di stenti, ma che per nulla al mondo vorrebbe andarsene in silenzio.
Dall'alto, giusto dietro un angolo di strada, mi investe il rumore di una festa. Mi fermo sotto qualche secondo, il naso all'insù. Mi giro una sigaretta che fumo a grosse boccate affumicandomi l'anima. Poi la stasi s'interrompe sola, e rimprendo la via, fatta dei miei passi che cercano invano di incrociarsi con quelli di qualcuno che come me, non ne può più.

1 febbraio 2011

porta chiusa

Mi alzo la mattina senza essere in grado di riordinare le idee. Il sole da fuori fa un chiasso assordante e non c'è interruttore che possa spegnerlo. Mi alzo dal letto sempre con la solita faccia. I soliti gesti mi portano a lavarmi, profumarmi, vestirmi. La ragione per cui oggi affronterò il mondo è Guaio. Se non ci fosse lui, e la sua minaccia di cagarmi in casa il mondo non verrei nemmeno vederlo. Quando scendo le scale spero sempre di non incontrare nessun inquilino del piano di sotto. Cammino a testa bassa fumando come un ossesso tra le risa di liceali in minigonna, le osservo, e tiro dritto. Faccio quasi sempre strade diverse per muovermi da un punto all'altro della città, ma sempre e comunque mi fermo davanti al parcheggio di via Dante. Un mendicante è sempre li stazionario con la sua miseria. Gli passo rasente e per la prima volta sorrido. Non che ci sia nulla di comico in lui, è che le anime disperate hanno una solidarietà diversa. Non provano a ridipingere la realtà con un colore nuovo, semplicemente sorridono.
Passo ore inutilmente concentrato a leggere libri inutili che devo leggere per dovere. Ancora per poco mi ripeto, e poi potrò volare via. Ma la speranza di una vita diversa va via via diluendosi negli anni che inesorabili segnano il mio viso. Ripenso agli amori passati, lo faccio con tenerezza, con compassione, con rabbia. Ogni volta una perdita, una ferita che per quanto voluta o subita non si rimarginerà mai.
Le voci dei passanti sono sempre così piene di sicurezza, di concitazione che sprofondo nella solitudine più profonda nell'ascoltarle.
Parlo poco, sempre meno, e cerco sempre un interlocutore che quanto meno non scuota troppo la testa mentre vuoto il poco che ho dentro. Ma l'entusiasmo dei facili dialoghi sfuma ad ogni virgola, ad ogni momento in cui dovrei riprendere fiato e ripartire con il resto della frase. Per questo i miei discorsi non sembrano solo a metà, lo sono.
Questa sera ho trovato Claudia online, le ho chiesto se le andava di vederci per qualche minuto.
"Passo sotto casa tua con Guaio"
"Solo 5 minuti però che devo studiare"
"Velocissimo" dico.
Claudia ha un'anima sperduta più della mia, ma rifiuta ogni braccio teso perchè ne deve aver passate troppe. Spesso rifiuta anche il mio. Non so comunicarle quello che sento, l'affinità elettiva che dovrebbe unirci svanisce sempre in brevi silenzi, e l'attrazione che provo per lei continua perennemente ad essere repressa.
Mi convinco che sta sera sarà diverso, che lascerò a casa molti dei miei atteggiamenti, delle mie personalità, andrò da lei nudo come sono con le mie paure, ma soprattutto con questo disperato bisogno d'affetto autentico che solo chi ha l'anima dilaniata sa dare. Guaio salta giù dal divano, prende la pallina in bocca e scodinzola. Povera vittima inerme delle mie paturnie. Con un sorriso di speranza mi lancio per strada, percorro velocemente la strada che mi separa dal vederla. Mi attacco a questa conversazione come se fosse l'unica meta che ho in vita. E in fondo è così. Supero vie desolate e ingorghi di gente sparsa. Salto solitudini come rami secchi e corro verso quel campanello.
A 5 passi dal portone di Claudia mi arriva un messaggio, è lei.
"Perdonami, ma davvero ho una brutta serata, facciamo un'altro giorno?"
"Sono sotto casa tua" scrivo io. "Ok, un'altra volta" nel secondo messaggio.
Mi trovo davanti a quel portone, e di quel poco di forza che mi ha fatto arrivare fin li è svanita in un secondo, a 5 passi dalla speranza. Non so come trovare la forza per tornare a casa. Guaio scodinzola, vuole solo che gli lanci la pallina.

19 gennaio 2011

aneddoto sulla pazzia

Come sempre Diana mi stupisce una volta di più. M'ha raccontato un aneddoto sulla pazzia che non voglio scordare, e per questo lo appunto qui, al servizio di chi ne saprà trarre qualcosa di buono.

In un ospedale spichiatrico è rinchiusa una paziente particolare, la sua caratteristica è quella di dipingere sui muri della stanza, dipingere per non morire, anche se come pittura usa la propria merda. Magnifici disegni di merda sui muri che inservienti meticolosi devono ripulire ogni giorno, nauseati dall'odore stantio di una latrina mai pulita. Lo spichiatra di turno non sa che fare, crede che pulendo ripetutamente il muro prima o poi dovrà rimanere pulito, crede che la pazzia sia una questione di costanza.
Un giorno nella stanza della paziente entra un nuovo psichiatra. Non guarda nemmeno la "malata" negli occhi, è troppo impegnato a osservare la bellezza del dipinto su muro. Un dipinto fatto con la merda, ma stupendo. Non una smorfia, non un segno di cedimento per l'odore che gli fracassa le narici. Poi si volge alla donna, e fa un solo commento:
"È davvero stupendo, anche se manca un po' di colore"
"Non è colpa mia se non mi danno la vernice" risponde la donna.

Chi è il pazzo qui? La maggior parte delle malattie mentali sono la conseguenza immediata della stupidità di chi ha il potere di decidere chi è normale e chi no.

equilibrio

Nelle relazioni amorose esistono due tipi di persone: i muli e i purosangue. I muli sono fedeli compagni di vita, instancabili lavoratori, docili e domabili non si scansano alle frustate del padrone, e con umiltà e rassegnazione compiono il loro dovere, sempre e comunque, con devozione.
I purosangue sono tutto il contrario. Sono degl'impareggiabili figli di puttana, anarchici, egoisti, restii al giogo, imprevedibili, incontrollabili, ma fottutamente poderosi.
Il mulo serve per trovare un equilibrio fittizio, per perpetuare l'illusione della stabilità, per camuffare il cambiamento, negarlo fino alle estreme conseguenze.
Con un purosangue puoi cavalcare con il vento in faccia, sentirti Dio, ma sempre correrai il rischio d'essere disarcionato. Il mulo ti porterà a destinazione, ma mai, e ripeto mai, saprà regalarti un briciolo d'emozione.
Lo stesso paragone lo si può fare per il concetto d'equilibrio. C'è chi lo intende come il punto di stallo che nessun evento potrà perturbare. Altri, come me, che lo percepiscono come la summa di un funambolismo estremo, in cui osservi l'inferno sottostante dall'alto del paradiso in cui ti trovi.
In entrambi i casi la questione del cadere è solo un problema di tempo. Quello del cadere può essere una semplice conseguenza della gravità, oppure può essere un'arte.

Potranno sembrare parole senza senso, metafore dalle gambe corte, ma se c'è un purosangue tra chi legge queste righe, sicuro che capisce cosa intendo.

"Non mi fido di te, finisce che mi farò del male" mi ha detto Marta ieri sera.
"Anche tu vuoi un mulo, insomma" le ho risposto secco.

Il dolore è parte della vita, bisogna sempre aver il coraggio di accettarlo. Solo se vivi nell'inferno ogni singolo giorno sai riconoscere il paradiso quando lo incontri. Solo se vivi nel dolore e nella solitudine puoi afferrare ciò che di bello ti passa tra le mani, e attaccartici con tutte le tue forze, tenendolo stretto, fino a sanguinare.
Voi che non amate rischiare, che vi chiudete dentro una campana di vetro impauriti dal mondo, dalla sofferenza; voi che credete di starvene al sicuro nella vostra relazione piena di certezze, di rassicurazioni, di pacche sulla spalla; voi che fingete la maggior parte del tempo per la paura della perdita o ancor peggio dell'abbandono; voi, io vi compatisco. Quanto a me, voglio il vento in faccia, voglio sentirmi Dio, perchè solo così posso smettere di sentire l'odore della merda di tutti i muli del mondo, e finalmente vivere. E se dovrò cadere, come già m'è successo molte volte, non sarà un volo goffo seguito da un tonfo sordo. No signori miei, sarò un Icaro che in tutto il suo splendore piroetterà affrontando il suolo come la giusta conseguenza per aver voluto toccare il sole.

16 gennaio 2011

Weidmannsheil

Le prove di forza finiscono sempre per avere la meglio su di me. L'auto aveva appena iniziato a percorrere i 600 km che dividevano l'inciviltà che ci lasciavamo dietro e la mancanza totale di civiltà che ci aspettava davanti. Mio padre guidava silenzioso, mio zio russava, io non facevo altro che guardare fuori dal finestrino tenendomi saldo alla testa di Guaio che dormiva sulle mie ginocchia. La linea bianca intermittente dava un senso di tortura infinita, e scandiva il passo verso le montagne che ci aspettavano. "Qui non si prende più la radio, metto un po' di musica" dice mio padre.
Speravo non fosse Toto Cutugno o qualche altro cantautore provinciale italiano. L'ultima volta che ho ascoltato l'isola di white per poco non meno il dj, mi aveva fermato il solo pensiero di dover affrontare anche tutti quelli che facevano il coro. Parte un cd di Mia Martini. Mi sento scomodo nel rapportarmi alla sua completa ignoranza delle cose basilari del mondo, ma la sua sofferenza d'amore basta a calmarmi un poco. Solo la sofferenza sa placare altra sofferenza, o almeno la fa sentire meno fuori luogo.
Non so chi me l'ha fatto fare, non so se resisterò 48 ore di fila con il sangue del mio sangue a raccontarmi aneddoti sul come si deve uccidere un animale. La morte è già così presente nelle facce che incontro per strada che forse guardandola direttamente negli occhi di un animale morto e sventrato potrà esorcizzarmi, e spingermi verso la vita.
Le montagne ci inghiottono in canali scoscesi, poi sempre più ripidi. Continuo a pensare che alla fine di questa strada le pareti rocciose ci stringeranno in una morsa dalla quale non riusciremo più ad uscire. Non riesco a respirare e sto scoppiando dalla voglia di accendermi una sigaretta. Il mio occhio continua a scrutare il livello del carburante, prima o poi questa carretta dovrà pur fermarsi a bere benzina. Ma gli spostamenti millimetrici non mi laciano speranza, e sempre più mi convinco che sarò come Anna Frank, morta due giorni prima della liberazione. Io ci lascerò la pelle a 2 km dall'area di servizio per mancanza di nicotina.
Continuo a pensare ai buoni propositi, all'idea che mi ero fatto di un tete-à-tete con mio padre, l'uomo che mi guarda e non mi capisce. Volevo compiacerlo, passare un po' di tempo con lui. La caccia, ho pensato, è fatta di silenzi, così almeno le parole non serviranno. Volevo solo stargli vicino un poco, sentire quel senso di complicità che abbiamo perso, se mai abbiamo avuto. Lo guardo mentre scherza con mio zio seduto al suo fianco, io rido dal sedile posteriore, ma il mio sorriso non arriva davanti. Forse è meglio così, almeno non corro il rischio che appaia forzato. Guaio si continua a rigirare nel sedile cercando una posizione comoda, ma le troppe ore nella macchina lo rendono nervoso. Sento lui più affine di mio padre. Ogni tanto penso di chiedere di poter smontare qui, un modo per tornare indietro lo troverei facile. Ma ho la bocca incollata dall'illusione di mio padre d'avermi con lui. 
Finalmente l'autogrill, smonto ancora prima che l'auto si fermi, Guaio salta giù dietro di me. Abbiamo fatto solo 300 km, e sono passate solo 3 ore dalla partenza. 

8 gennaio 2011

io: il barbone

Mia madre è venuta a trovarmi. Sono appena passate le feste, e dopo qualche giorno di falsa benevolenza nei confronti del mondo è tornata ad essere puntigliosa più di prima. Il problema del 2011 sono io, il mio modo di comportarmi, di vestire, di portare barba e capelli: mi crede un barbone. Pure mio padre lo pensa, ma almeno ha il buon cuore di non venirmelo a dire. Lui si limita a dirmi bravo quando torno a casa fresco di rasatura (il che succede poco spesso). Mi fa sentire come Guaio quando fa qualcosa di buono. Io lo guardo e scodinzolo, ma penso sempre che vorrei saltargli alla gola se solo mostrasse un po' di cattiveria nel suo giudizio.
Tornando a mia madre, devo dire che la sua diplomazia nei miei confronti sta migliorando. Sta imparando la furbastra a trattare con un disadattato come me.
"Andiamo a fare compere? Pago io" mi dice diretta.
"Sai che odio andare per negozi, mi deprime".
"Facciamo presto, prometto che non ti metto fretta, tu solo scegli qualcosa che ti faccia sembrare meno barbone".
Continuo a pensare che l'appellativo barbone mi calza a pennello, e che, contrariamente all'immaginario collettivo, in me suscita un profondo senso di libertà. Non hai nulla, e nessuno ti chiede nulla. Cosa può esserci di meglio? Il fattore cibo e rispetto sono un po' carenti, ma con il fatto che io rispetto poco gli altri andiamo pari. Per il cibo.. vabbè non può mica essere tutto rosa e fiori no?
Monto in macchina con lei con gli occhi di un condannato a morte che vede davanti a sé il patibolo da cui penderà a breve. Cerco di evitare destinazioni come outlet, megastore, centri commerciali e roba simile. Se devo morire non lo farò alla gogna pubblica.
Contratiamo che ciò che mi serve è sostanzialmente qualche paio di pantaloni nuovi, un giaccone da sostitire a quello che porto abitualmente, e se ci scappa una maglia che rinfreschi un po' il guardaroba monoscromatico che mi caratterizza.
"E se ti prendessi anche un paio di scarpe?"
"Due piedi ho, un paio alla volta posso portarne"
Contrattiamo con il fatto che mi darà qualche soldo in contante perchè io mi scelga un paio di scarpe dignitose. Il soldo lo incasso, per le scarpe c'è tempo. Tempi duri questi.
Al rientro ero troppo soddisfatto, e soprattutto lo era mia madre. Incredibile. Ci ho messo la bellezza di 45 minuti per concludere tutte le transazioni con il mondo della moda. Ho totalizzato tre paia di pantaloni tutte uguali, stesso colore, stesso modello: ne provi uno e ne comperi tre, facile no? Una giacca invernale nera praticamente uguale a quella che già avevo, e un maglione di lana, nero pure quello. I colori non sono il mio forte, il fashion nemmeno.
Ah, la barba e i capelli li taglierò domani, promesso, così finalmente si che sarò un ragazzo bello e responsabile. Giusto quello che mi ci voleva: un falso restiling per un falso inizio di nuova vita. 

5 gennaio 2011

un vecchio amico

L'inferno sono davvero gli altri. Spesso non è nemmeno quello che dicono, ma il come lo dicono. Mi annientano. Mi ero appena ripreso dalla depressione natale-capodanno causa di sconvolgimenti alcolici non indifferenti. Con l'alcool anche l'idiota di turno sa essere divertente. È un buon metodo per insultare agratis una persona partendo già con la scusa in tasca. Come ho detto è un metodo, non una soluzione, perchè poi l'effetto passa.
Comunque, sta mattina ho deciso che potevo smetterla di piangermi addosso e potevo uscire per strada, rendermi produttivo, con quel senso capitalistico-borghese da voltastomaco. La sveglia mi ha consigliato che forse era venuto il momento, l'ho zittita e mi sono lanciato senza indugio al mondo. Guaio con l'aria frizzante del mattino ha un altro colorito. Meno nicotina da fumo passivo che gli propino, e più cucciolo con 200 culi di cagne davanti. I facili entusiasmi sono sempre il pane degli stolti, così nemmeno un secondo dopo aver odorato la merda di Guaio, alzo gli occhi ed eccolo li: il mio vecchio amico Marco. Non ho mai capito cosa ci sia così tanto da ridere da far adirittura sparire gli occhi, lasciando il mio sguardo farsi strada tra un paio di piercing da mangia pasticche poco rassicuranti.
"Come va vecchio mio?"
"Come vuoi che vada"
"Che piacere vederti"
Se potessi provare piacere solamente vedendo un vecchio amico probabilmente non avrei mai buttato l'agendina che usavo alle superiori. Le due chiacchiere di circostanza si stavano svolgendo secondo i normali canoni comunicativi. Occupazione, capodanno, salute, speranze per il nuovo anno?
"Nessuna" ho risposto secco.
Mi ha fatto piacere suscitargli una risata, quando faccio ridere qualcuno è sempre una rassicurazione. Il problema sta nell'aspettativa che poi il favore ti venga ricambiato. Non succede quasi mai, ma brucia sempre. A volte mi sento come una prostituta sobillata dal fiatone di un uomo troppo ubriaco che non si preoccupa mai di gratificare lo sforzo con un orgasmo.
"Che fai ora? Prendi un caffè?"
"In realtà devo riportare Guaio a casa, e il caffè evito di berlo che già sono nervoso di mio"
"Dai vieni che allora te ne offro uno"
Chiaramente la gente non ascolta. Marco mi ha seguito raccontandomi per filo e per segno tutto ciò che meno di interessante c'era al mondo: la sua vita. Mentre lo guardavo, immerso nell'atmosfera da pareti gialle di un bar imbucato del centro, capivo che dietro tutte quelle chiacchiere e voler apparire c'era un giovane perduto che voleva solo un po' di compagnia. Odio provare compassione, perchè poi finisce che mi sento in colpa pure per tutti i pensieri poco ortodossi che mi vengono sulle persone. Così in segno di scusa gli ho concesso un paio di minuti in più dell'usuale. Guardavo il bar, e in mezzo ai tavoli dei pensionati che facevano il punto della situazione, ho intravisto un vecchio solo appoggiato al bancone del bar. Beveva caffè corretto grappa alle 9:30 di mattina. Aveva le guance colorate di rosso, un cappello scapestrato in testa, e gli occhi bassi da cane bastonato. Marco parlava e io pensavo solamente che avrei voluto sedermi vicino a quel vecchio, fammi correggere il caffè con doppia grappa, e starmene li in silenzio al suo fianco. Non so se lui avrebbe aprezzato la mia intromissione, ma io avrei goduto della sua compagnia più che di quella di Marco.
Per fortuna che dopo il caffè la sigaretta è d'obbligo, così, sono riuscito a rimettermi in strada, respirando un po' di libertà. Quel bar dava claustrofobia. Ci ho messo un po' prima di deppistare Marco, continuavo a vederlo come una gomma da masticare troppo usata che non ti si stacca più dalle dita.
"Ci vediamo presto" dice
"Contaci" rispondo.