26 dicembre 2010

abbuffata

Ho conosciuto Lara per caso. Qualcuno ha cercato di accorciare la mia vita spaccando la vetrata della biblioteca dove ogni tanto vado in cerca di un po' di conentrazione. Ricordo solo le mie urla smorzate che offendevano più per la qualità delle parole che per il tono della voce. Volevo che quella mandria di ubriaconi se ne andasse presto con quelle trombette da ultras repressi che non aspettano altro che la domenica per sfogare istinti selvaggi. Poi il vetro che viene giù, e Lara che mi chiede se sto bene.
L'avevo notata più per la sua amica che per la sua appariscenza. Le ho parlato perchè forse mi avrebbe potuto condurre a quegli occhi che prima, per qualche mezz'ora, m'hanno fatto capire perchè mi trovavo li in quel momento.
La mia socievolezza è uno strumento a doppio taglio: da un lato concordo per una cena con lei e la sua amica, di cui scopro il nome arrampicandomi su appigli, dall'altro sento inevitabile ferire Lara. Le ho fatto credere che le mie attenzioni siano rivolte a lei invece sono per Gioia, e solo per Gioia.
L'indomani porto un amico a cena, devo reggere lo scontro con parità numeriche. Devo complessificare il gioco per essere certo di rubare attimi di conversazione a Gioia, sguardi, qualsiasi cosa mi faccia credere ci sia un senso per essere seduto a quel tavolo. Il mio amico ingurgita cibo e vino, tutti fanno lo stesso con una meccanicità quasi androide. Percepisco impacciato ogni mio gesto consuetudinario, il solo cibarmi mi fa percepire come sgraziato, smodato, scassato, di troppo. Gioia mi osserva a tratti, lo stomaco si chiude e il vino è l'unico a riuscire a vincere l'assesio al mio stomaco. Il resto lo racconta l'alcool. Le chiacchiere di politica, di società, di letteratura, di microbiologia, di tutto quello che di inutile c'è nella vita, si sono snocciolate mentre io facevo il tifo per me. Come in un arringa da tribunale sentivo di difendere un cliente colpevole, o quantomeno estraneo ai fatti. Il gioco della seduzione sa divenire così penoso a volte, che se solo quel profilo greco non fosse stato li a sfidarmi, mi sarei chiuso in me stesso fino a sparire nel nulla.
Al momento del conto prendo Gioia per un braccio e la tiro verso la bici. Do al mio amico istruzioni per portare Lara a casa mia, senza fretta, e di cercare di "tenerle compagnia". Gioia intuisce questo scacco alla situazione, ma fa gran poco per fermare il mio piano.
"Ancora un minuto di finzione e muoio davanti ai tuoi occhi" le ho detto con charm alcolico.
Gioia sale sul manubrio della bici e non fiata. S'è trasformata in spettatore inerme di fronte a quello che potrebbe, senza eccesivi problemi, essere il più terribile dei carnefici: io. Pedalo in bilico, alitandole sul collo la fatica della salita. Poi il fiato si fa tocco, e poi bacio. Chiudo gli occhi senza curarmi degli ostacoli, della vita. Tutto sta in quell'odore che mi sta salvando da me stesso. Sono un umano su una bici in un pianeta di extraterrestri, la rivincita per i fan alieni di Steven Spielberg. Gioia si stringe sul collo premendomi in un guancia a guancia.
"Non posso" dice poi secca. "Lara non me lo perdonerebbe".
E l'inferno è tornato attorno a me, in un lampo, dopo una tregua così breve da far solo presagire ciò che normalmente si intende per vita. L'incubo si sussegue in tutti i convenevoli da quel momento ai saluti. Lara fugge il mio sguardo. Ma io penso solo a non isolarmi troppo dal presente. Se solo la gente sapesse con quanta facilità si può trasformare un inferno in paradiso (e viceversa) non userebbe più negazioni nella propria vita. Appena se n'è andata ho percepito densa la situazione con il mio amico. Mi solo limitato a sopportarmi nuovamente in questo rumore assordante che è la solitudine.

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