26 settembre 2011

Lap Dance

Guaio rallenta sempre i miei passi, anche lui è in cerca d'amore. Non bisogna stare a chiedersi il perché lo cerchi con ossessività annusando gli angoli delle strade, o gli usci delle porte. Ognuno si muove come può.
"Dai cavolo, datti una mossa"
Il suo naso però continua imperterrito nella sua ricerca. Si passa una vita a cercare. Con qualche contrattempo siamo giunti al parco, un briciolo di respiro dall'assordante rumore cittadino, dal quel movimento frenetico senza senso. Trovo un po' di pace sotto un piccolo albero dal fogliame fitto, uno di quelli che non ti macchia di luce la pagina quando leggi. Guaio ha perlustrato qualche arbusto nelle vicinanze, poi si è seduto rassegnato a qualche passo da me: mi guardava, ansimava, annusava.
Dopo essermi acceso una sigaretta dopo lo sforzo per portarmi fin li, ho dato un'occhiata attorno a me, nella speranza di vedere se qualche altra anima schiva stesse consolando le sue ossa su un tronco di ramo, o tra le pagine di un libro che gli analfabeti chiamano "taglia vene". Tutto taceva. O quasi.
Sulla mia sinistra ho subito notato tre adolescenti. Non si poteva certo dire fossero anonimamente sedute a contemplare la natura: una di queste, decisamente più matura delle altre due, si è cimentata in un ballo famosissimo in quei posti in cui manifesti il tuo apprezzamento infilando uno dei vecchi "millini" nelle mutande della vergine di turno. Mi ha guardato dritto negli occhi lanciandosi i capelli di lato, poi si è lentamente alzata la maglietta raccogliendola sul seno e facendo ondeggiare lentamente i fianchi leggermente sovrappeso. Per evitare l'ipocrisia posso dirvi che se fosse stata un'aspirante velina probabilmente avrei pure pagato per il seguito dello show, ma il brufolame sparso e l'ostentazione de la femme fatale che non albergava in lei mi hanno distratto. E poi come avrei mai potuto non iniziare il mio nuovo libro: l'autore chiaramente morto suicida, un cocktail esplosivo per un lunedì mattina coi fiocchi. Cosa chiedere di meglio?
Stavo quasi arrivando alla fine della prima pagina, sfiorando quella strana magia che è la concentrazione, quando un nuovo elemento di disturbo s'è fatto avanti con prepotenza nel mio campo visivo: un gruppetto di immigranti s'era disposto a semicerchio in contemplazione delle natiche ondeggianti. Uno di loro commentava a voce alta in un dialetto italiano dall'accento arabo, probabilmente imparato nel migliore cantiere della città. Pure Guaio si era accorto della loro presenza, raggiungendoli con l'innocenza in faccia, e la pallina in bocca.
"Giocate?" gli ha chiesto lasciando la pallina cadere ai piedi del più spavaldo del gruppo. Ho cercato di rimanere calmo spergiurando il peggio, ma le mani già sudavano come a chi ha già capito tutto. Il ragazzo ha colto la sfida di Guaio raccogliendo la pallina da terra e lanciandola casualmente verso la ballerina di lap dance lattante. Una volta, e Guaio la va a prendere. Due volte, e Guaio la va a prendere. La ballerina, incitata dal pubblico non pagante ci dava dentro: il principio di ciccia che traboccava dai jeans stretti deve aver avuto su quei ragazzi un richiamo ancestrale visto che poco c'è mancato che il gruppetto non iniziasse a fischiare. Al terzo lancio di pallina ho chiuso il libro.
"Guaio non è uno strumento d'imbarco, non lo usare" gli dico cercando di restare il più cordiale possibile. Nel momento stesso in cui il gentiluomo avrebbe voluto spiegarmi le sue ragioni usando la mia faccia come un sacco da pugilato qualcosa l'ha distratto: la ballerina aveva smesso di sculettare.
"Guarda, quello li non è il tuo ragazzo?" le ha chiesto una delle compagne che fino ad allora se ne stava nell'ombra, indicandole un groviglio umano di lingue e mani stesi sul prato poco più in la.
"Quel gran figlio di puttana" ha risposto lei raccogliendo lo zaino da terra e lanciandosi verso l'angolo opposto del parco.
Ho approfittato della distrazione per raccogliere la pallina, chiamare Guaio e allontanarmi il più in fretta possibile. I ragazzi hanno subito la fine dello show supplicando per un bis, ma la femme fatale aveva già una lacrima a lacerarle il cerone di trucco.
"Bastardooo..." ha sbraitato abbassandosi la maglietta.
La mancanza d'amore è una piaga, il confonderlo con il sesso un fraintendimento dai risvolti squallidi.

22 settembre 2011

orizzonte

Mi sono spinto a passeggiare fino al bordo del mare, al limite della terra calpestabile e inevitabilmente ho dovuto fermarmi. L'orizzonte sfumava indistinto e cielo e mare sembravano essere una cosa sola, un abbraccio incondizionato, una mescola di colore, un abbraccio silenzioso e confuso. Ho sentito l'angoscia dell'indistinto assalirmi da dietro, da dentro. Era una solitudine sorda, vuota, a bottoglie sul bagnasciuga, conchiglie rotte sotto i miei piedi. Indietro non posso tornare, avanti solo gelida acqua fino alle nuvole.
Sento pesante il respiro che mi tiene in vita, che mi placca in spoglie mortali e stanche.
Rassegnato ho fatto dietro front camminando ad occhi bassi. Sono tornato al conosciuto e noioso mondo di sempre senza riuscire a strappare nessuna certezza ulteriore del dovere incondizionato ad arrivare a domani. Una telefonata spezza il silenzio, la speranza s'attacca alla mia mano che ansiosa cerca di estrarre il telefono di tasca. Qualsiasi voce mi avrebbe salvato, qualsiasi richiesta sarebbe stata accettata pur di mettere fine a questo dialogo ininterrotto tra l'io e il me. Una battaglia sanguinaria di dubbi e irrimediabili certezze.
Mi stavano chiamando dal lavoro. Ho messo in silenzioso, e ho riposto il telefono nella tasca.
Arrivato alla strada mi sono seduto su una panchina. Nelle scarpe sabbia.
Continuo a ripetermi che domani inizierò nel modo corretto, basta con questa lotta, ho bisogno di una tregua.
Domani, domani.

11 settembre 2011

lucertole

L'estate per molti è il periodo dell'abbandono dell'umano. Già nell'antichità a partire dal solstizio d'estate gli esseri umani regredivano allo stato animale per concedersi il piacere della lussuria, ma all'epoca, avendo appena conquistato la terra dopo aver abbandonato gli alberi, si poteva vedere l'evento come un trionfo meritato. Ora che i cicli mestruali non seguono più l'andamento delle stagioni, ma si ripetono regolari ogni mese, non credo esista più la necessità per il genere umano di lasciar sopraffare l'istinto alla ragione in modo così eccessivo durante il periodo estivo.
Qualcuno potrebbe giustamente credere che anche il mio silenzio durato tutta l'estate sia attribuibile a copule e ululati, ma mi spiace deluderlo. Ho dovuto solo fare le scorte di intolleranza per tornare alla carica quando i vostri cervelli tornavano ad essere più ricettivi.
La lunga pausa ha reso possibile una rivisitazione degli inutili schematismi mentali di cui sono assiduo inventore, per tornare a riproporvi nuove prospettive, più o meno banali, ma che sempre possono giovare ad una mente malata come la vostra che mi legge, che ha bisogno di rassicurazioni continue: "no, non siete soli".
Non che io sia un grande fan dei Pink Floyd, ma sugellare l'ironia del rientro con un tributo al loro disco Animals. Ecco a voi le lucertole.
Le lucertole sono esseri bipedi, per lo più appartenenti al sesso femminile, anche se nell'ultimo decennio gli esemplari maschili di questa specie hanno quasi annullato il gap, la cui unica attività durante i mesi estivi è l'esposizione solare. L'evoluzione li ha dotati di apposite mascherine fascianti per proteggere l'organo visivo dai raggi solari. Gli esemplari dominanti, in età adulta, possono essere dotati di mascherine che coprono fino al 95% della superficie del viso. La loro maggiore preoccupazione è procurata da una tostatura omogenea e costante delle squame da ottenersi mediante il cospargimento di unguenti a base di vanità, narcisismo e spossatezza mentale. Il segreto per lo stoicismo solare è l'inibizione pressochè totale dell'organo celebrale.
Vorrei rassicurare i lettori che maggiorni informazioni sulla specie verranno fornite nell'arco dei prossimi mesi. Per il momento l'unico consiglio che posso darvi sulla sicurezza in caso di incontro infortuito è: non muovetevi, i rettili percepiscono solo le cose in movimento.

4 luglio 2011

Girotondo

Alla fine della giornata mi sono seduto sulla veranda di casa a fumare una sigaretta. Mia madre mi si avvicina con l'aria di chi sa cosa c'è che non va:
"Vatti a prendere qualche camicia nuova, sembri un disperato"
"Sono un disperato"
Poi ho finito la sigaretta e me ne sono andato. Ho preso Guaio con me, e abbiamo iniziato a camminare. Passi su passi, pensieri su pensieri, nessuna meta, nessuna via d'uscita. Solo un inesorabile girare in tondo. Questo non lo dico solo in riferimento a questa serata. Ho l'estenuante impressione che tutto sia solo un girare in tondo tutto il tempo. Ad un certo punto mi sono seduto sul ciglio della strada, Guaio se ne stava steso al mio fianco con il muso appoggiato sul mio ginocchio. Sembrava tranquillo, sembrava non preoccuparsi troppo del fatto che stessimo andando da qualche parte oppure no. Dove stavo io lui sentiva casa. Sono il suo centro gravitazionale.
"Dimmi che tu non mi lascerai mai"
Mi guardava alitando con la sua lingua di murshmellow rosso. Gli ho accarezzato e baciato la testa con disperazione. Poi mi sono messo a guardare i passanti. Sembravano sempre gli stessi, che tornavano dopo un giro di boa.

5 giugno 2011

politichese

La sveglia ha suonato prima del solito oggi, impegni di vita pratica mi hanno smosso dalla mia blanda routine quotidiana per trasformarmi in una di quelle persone che credono che avere 100 euro in più in banca valga lo sforzo di alzarsi con ancora sonno addosso. L'unico vero lato positivo è che a quest'ora trovo ancora i cornetti caldi nei bar delle formiche operaie. La sintomologia del giorno diverso era nell'aria già da prima che sentissi le futili chiacchiere da strada. Incredibile come i più grandi dibattiti filosofico politici si consumino davanti ad un bicchiere di vino nel più squallido bar di provincia (quello che io frequento normalmente).
Tutti avevano un gran chiacchierare, confabulare, stupirsi in acuti fuori luogo e fuori tempo. Normalmente se accade qualcosa che attira l'attenzione generale io cerco di defilarmi nel più breve tempo possibile. La morbosità con cui la gente specula sulle vicende altrui è tarrificante. Morbo, morbo, morbo.
Il tema della mattinata sono i risultati delle elezioni politiche locali: il centrosinistra ha battuto inaspettatamente il centrodestra berlusconiano affarista. Milano è caduta in mano ai rossi che dalla russia più profonda hanno attraversato mezza auropa per giungere nella città della moda per imporre a tutti basco e pellicciotto.
Al leggere la testata del giornale ho sentito un buco nell'anima. Una di quelle sensazioni di vuoto e vertigine che ti scavano dentro fino ad amplificare l'eco del nulla. Alcuni operai seduti ad un tavolo bevendo prosecco di bassa qualità esultavano peggio che se l'Italia avesse rivinto i mondiali di calcio. Guardavo i loro occhi pieni di speranza, così lucidi da lasciar trasparire una fiducia incondizionata verso il grande cambiamento che si stava producendo. La sinistra ha dato un colpo di coda, e non solo è viva, ma ha pure vinto.
Ho bevuto il mio cappuccino mentre era ancora troppo caldo, scottandomi la lingua. Ho pagato rapido il conto senza nemmeno mangiare il cornetto alla cioccolata che pregustavo come unico premio per la levataccia. Uscendo dal bar mi sono reso conto di come la gente viva ancora dentro schematismi obsoleti, di come i nostri governanti siano riusciti con un colpo di scena a rimestare speranze e illusioni. Mi rendo conto di come nessuno in sto cazzo di paese si renda conto che il teatro della politica è lo show più retribuito del mondo, di come noi siamo solo fornitori di sudore. Ha vinto la sinistra a Milano, e allora? Credete che affarismo e cementificazione finiranno? Credete che smetteranno di costruire centri commerciali? Pensate veramente che da domani mattina il mondo sarà meno ipocrita e meschino di come lo conoscete oggi? E toglietevi quel cazzo di sorriso dalla faccia che mi avete già rovinato la giornata.

3 giugno 2011

ciò che non si vede

E' arrivata con un maglione sformato, rosso, uno di quegli indumenti che ti metti quando sei a casa, in divano. Portava dei pantaloni della tuta. E' stato un brivido pensare che solamente credesse d'avere la confidenza per potersi vestire così con me. Era meglio di vederla in ghingheri, o nuda, o in qualsiasi altro modo. Mi sentivo a casa, con lei, seduti nell'intimità delle nostre cose. In mondo non esisteva più. Abbiamo iniziato a camminare lungo il lato esterno del parco del centro, in senso orario. Parlavamo, e io mi sentivo sempre così terribilmente in colpa per interrompere i suoi discorsi con la mia mania di protagonismo, come se fossi sempre sul punto di doverle dimostrare che valgo, che avrebbe una buona ragione per stare con me. Al tornare nel punto in cui ci siamo incontrati abbiamo proseguito in circolo iniziando un secondo giro del parco.
Nel realizzare questa cosa mi continuavo a ripetere che se fossi riuscito a farle fare anche un terzo giro con me, sarebbe stata mia per sempre.
Al terminare il secondo giro non ho saputo resistere, come se l'idea di poterla aere fosse troppo, una vertigine incontrollabile, e sneza interpellarla ho tirato dritto, verso via Roma, verso il momento in cui l'avrei salutata per sostituirla con una dilaniante nostalgia. L'ho guardata sfilarmi lontano nella sua esile figura. Aveva la sua solita camminata di chi non ha fretta perchè non ha destinazione. Si è girata una volta, ma non per guardare me, qualcosa alla mia sinistra l'aveva attirata. Se solo sapesse che le ho regalato il dono dell'ubiquità m'insulterebbe per la carcerzazione forzata del suo doppio nel mio cuore. Se ne va ignara del sangue che verso ad ogni parola non detta, ad ogni bacio bramato ma non consumato.

27 maggio 2011

Cammina anche tu in una valle di lacrime, ma solo con scarpe Geox.

Se non sapete per chi sto scrivendo ora è meglio che smettiate di leggere subito. Non importa conoscerla, bisogna sapere cosa è lei per me.
Me ne sono stato seduto sui gradini di una casa per quasi una mezz'ora. In una mano reggevo il cellulare che, nonostante fosse ultra tecnologico, non aveva incrementato la qualità dei messaggi che mi arrivavano; dall'altra chiaramente una sigaretta accesa. La guardavo consumarsi facendo attenzione a non far cadere la cenere. Ogni boccata avida la faceva scintillare davanti ai miei occhi con un leggero bruciore alla punta del naso. Lo sguardo sempre e solo li, a qualche centimetro da me. Il resto era di un  vuoto colorato, fatto di case sfuocate, vetrine sfuocate, alberi sfuocati, passanti sfuocati. Forse era tutto regolare, e l'unico fuori fuoco ero io.
Il tempo mi stava addosso come un maglione in lana pesante il giorno di ferragosto. Pizzicava ad ogni minimo movimento della mia anima cadenzata da un respiro lento ma grave.
Improvvisamente la mia attenzione è stata catturata da un volto di anziana. Se ne stava seminascosta a spiare il mondo da dietro una tenda all'ultimo piano di una palazzina. La sua mano faceva ombra nella parte più profonda del suo viso, ma la bocca dichiarava le ferite subite in un'espressione poco composta. Sembrava non distogliere lo sguardo da un punto fisso qualche decina di metri alla mia sinistra, in corrispondenza di una fermata d'autobus. L'ho osservata come se non avessi davvero di meglio da fare, ed in realtà era davvero così. Attendevo con lei, come lei, che la vita si decidesse a muoversi, che si decidesse a parlare chiaro. La mano del cellulare sudava appena sotto l'immobilismo più totale.
Improvvisamente dall'angolo in fondo alla strada se ne esce rumoroso un bus di linea. Uno di quei banalissimi bus stracolmi di zombie che cercano rifugio nella propria casa dopo la fatica del giorno. Mette la freccia e si ferma giusto nel punto osservato dall'anziana signora. Le porte si aprono e se ne escono due mocciosi con l'aria spavalda, una signora con le borse della spesa, un ragazzo di colore con tutto il nero della sua tristezza, ed un anziano signore. Un fremito ha perturbato la smorfia della signora. L'anziano s'è fermato un instante, di spalle alla scena, prima di infilarsi il cappello in testa e marciare nella stessa direzione da cui era arrivato con l'autobus. Aveva almeno quattro occhi incollati sulle spalle ad osservarlo increduli. Due erano i miei. Quando ormai era diventato una figura distorta dal riverbero del calore sull'asfalto, s'è fatto inghittire da una trattoria. La mia sigaretta ha perso la cenere in un fremito assordante. Alla finestra non c'era più nessuno, e il silenzio di una città semideserta è stato infranto dal cicolare ritmico e metallico delle tre persiane della casa della vecchia. Un motorino elettrico le spingeva tutte e tre verso il basso come fossero state tre ghigliottine riprese al rallentatore. Una sincronia perfetta per un suono così straziante. Si sono sigillate ben oltre la linea del suolo, schiacciandosi fino a far morire ogni spiraglio di luce. Poi il silenzio. Ho spento la sigaretta ormai consumata. Mi sono avvicinato al campanello di casa. La signora faceva Collati di cognome. Poteva essere anche un altro, che importanza aveva? Arriva un messaggio nel mio cellulare:
"Domani mattina ho lezione presto, non so se riesco a uscire sta sera".

14 maggio 2011

evasione

Dall'altro lato della miseria che attanaglia tutti c'è la noia. E così prendiamo il nostro corpo e lo spostiamo nello spazio in cerca di un po' di refrigerio, di un briciolo di avventura, o salmente di un po' di speranza che succeda, finalmente, qualcosa. Come in un imbuto la gente viene convogliata verso i cliché che rindondanti da più parti soffocano quel concetto di libertà che vorrebbero perseguire.
"Che fai questo fine?"
"Spiaggione, no? Poi aprono una nuova disco!"
La massa rassicura, il branco omologa, abbassa il minimo comun denominatore delle aspettative umane a due chiacchiere di circostanza, un mojito pagato 8 euro e una scopata mediocre nel parcheggio del bar.
"Com'è andato il week end?"
"Il delirio"
Il delirio è l'assoluta convinzione di andare da una parte mentre si sta fermi, fermi all'era del bronzo, o peggio, all'era del centro commerciale.
Me ne sto seduto nel mio abitacolo fumando con i finestrini chiusi, l'aria condizionata aumenta l'effetto malsano del tabacco intasando il sistema di filtri. Il puzzo non mi molesta, lo sopporto come parte integrante del panorama di miseria che mi circonda. Auto una di fianco all'altra in una processione lenta e inesorabile verso il mare. Come il salmone risale la corrente in cerca di spargere il suo seme, così il lavoratore migra verso il mare cercando di consolare la propria solitudine con alcol e sesso a buon mercato.
Al mio fianco, nella corsia dei prudenti, un'utilitaria stracolma di attrezzature da campeggio e di speranze si fa strada nella determinazione a conquistare il west. Il capo famiglia, capo branco guida con lo sguardo di chi sta compiendo il suo dovere anche nel giorno in cui avrebbe voluto starsene a bere birra e guardare le partite di calcio in tv. La rumorosa famiglia mette a soqquadro i sedili posteriori mentre la madre isterica agita le mani cercando di imporre la disciplina necessaria ad un esodo di tale calibro.
Tutti in direzione del mare, io compreso. Una lunga scia di miseria e speranze a buon mercato che ritualmente si ripete ogni fine settimana, perpetuando la sacra illusione che se tutti vanno da una parte un motivo ci sarà.
Ed io, che ho come unica sfortuna quella di viverci al mare, mi mischio a quest'orrore infernale legittimandolo, mentre cerco solo di tornare a casa.

2 maggio 2011

Dalla mattina alla sera aspetto che un sorriso sia rivolto a me senza che nessuna nube oscuri la vista delle stelle. Sanguino ad ogni secondo, muoio nell'attesa di ciò che non avviene e mai avverrà. T'amo di stomaco, di ventre, d'invidia per quello che al mio posto non sa che tesoro possiede.
Ti ho detto di non seguirmi, di non starmi vicino, io che con questo fuoco oscuro rischio di bruciare il tuo candore. Te l'ho detto con l'inganno, con malizia, come quello che dice no, ma intanto chiede, spera, aspetta e sanguina.
Non so se tu m'abbia preso alla lettera, o se solamente ti sei persa nei labirinti della vita, o più semplicemente ti sei incantata a guardare occhi che non sono i miei.
Sono infame, sconclusionato e duro nel mio vivere così avidamente un'intensità che fatica a svelarsi. "Non ci si può fidare di te" mi hai detto tra le mille parole che vomitavi senza senso apparente.
Mi chiedo come si possa essere così ciechi, come si possa rifuggire la vita senza assaggiarla, come si fa ad esser certi d'amare così follemente il pistacchio se non si è provato null'altro. E così me ne vado, con il mio strascico di dolore, inghiottito dall'ombra che così cara copre le mie lacrime dure. Sparirò, e questa vota mi costringo essere per sempre, anche se mi sembra così folle. T'ho urlato contro il mio amore incondizionato, son tornato vergine per aspettare il tuo corpo i tuoi baci che finora ho solo immaginato. Se tu solo sapessi quanti attimi di vita t'ho dedicato senza che tu me lo chiedessi. Se solo sapessi quanto abbiamo vissuto, tu ed io, senza che tu non ti sia nemmeno mai mossa dalle tue certezze, sicurezze. Ma cautelarsi nei confronti della vita è come mettersi un salvagente durante il diluvio universale. Così tu sfiori dolcemente la superficie dell'acqua quando all'orizzonte sfidano nubi tempestose, ed io, perforato dal troppo dolore annego lentamente fino ad adagiarmi nel fondo. Sono un relitto buono solo per i vermi. Sono un cuore che ama sempre e solo a senso unico. Corri spavalda, va' pure dove ti pare, quando l'inerzia consumerà stanca la sua spinta forse capirai, o forse semplicemente avrai già dimenticato d'essere stata l'arma del mio delitto.

5 aprile 2011

lo spettacolo non mi ineteressa.

C'era ansia in casa prima del tuo arrivo. La presenza di Brixen non riusciva ad alleviare la tortura dell'attesa. Le poche chiacchiere di circostanza erano ripetutamente interrotte dai miei voli pindarici che dirottavano ogni argomento verso qualcos'altro prima che fosse irrimediabilmente tardi. Qualche sigaretta, qualche preparativo per la cena a seguire. Tre ragazze, un amico, io e l'ossessione del momento: tu.
Poi sei arrivata con un corteo di comari, ombre della tua luce. E la cena è iniziata tra qualche chiacchiera e una forte carenza di confidenza.
Come un trampoliere mi son reso funambolo sui discorsi e i silenzi per tenere salda quell'atmosfera che avrebbe voluto essere tua schiava. Ho sperperato, dissipato, consumato me stesso in inutilità il cui unico fine era il venerarti. Ogni parola, ogni gesto ogni pensiero che sudava dalla mia fronte era in realtà rivolto a te. Tu osservavi il cellulare, assente da ciò che accadeva, ma soprattutto distante da me. Ogni volta che nell'osservarti non notavo l'ossessività con cui lo facevo io era uno schiaffo, una scheggia nel cuore che lentamente mi fiaccava.
Che classe d'uomo mondano sono, così disinibito e distinto nel conversare amabilmente. La stessa disinvoltura d'un pagliaccio che per ridere ha bisogno di tatuarsi in faccia un sorriso. La musica continuava a sembrarmi tutto il tempo o troppo bassa o troppo alta. I tuoi occhi, sole del mattino, illuminavano solo l'equatore, ed io mi sentivo il polo in ombra durante il semestre di buio. Ma qui gela tutto, ghiaccia sotto il peso della tua indifferenza.
Tutto è stato rapido e asettico, come una cena d'affari. La cordialità così finta e sforzata m'ha fiaccato oltre modo, quasi a pensare d'averti abbandonata nel lato oscuro della tua luna nera. La mia ironia t'offendeva nel porci l'uno di fronte all'altro. Ciò che volevo era renderti mia complice, volare oltre le apparenze, le aspettative, trionfare nel proibito perché si può solo regnare all'inferno visto che nel paradiso il posto d'onore è già occupato.
Il momento dei saluti l'ho creato d'improvviso, nella speranza di scorgere un po' di sgomento nel tuo sguardo, ma nemmeno il distacco sembra toccarti più. Odio vederti con altra gente, odio che le tue attenzioni siano all'altro capo d'una linea telefonica, odio sapere che possa esistere qualcos'altro che non sia io, per te. È per questo che me ne andrò.