29 novembre 2010

Angelo, quello del bar.



Mi stavo imputridendo, consumando, decomponendo lentamente. Nello spirito, nell'anima, nella parte più cara che ho di me stesso. Mi sono fumato tutto il tabacco che avevo, e poi tutti i mozziconi. Quattro giorni senza uscire di casa, rintanato lontano dal mondo e dalla altrui solitudine. Guaio mi ha guardato storto tutto il tempo, come mi volesse far capire che lui non aveva responsabilità in merito. Reagisci Bandini, reagisci. Come il ritornello di un tormentone estivo continuavo ripetermi che dovevo reagire. Con la stessa ossessione riuscivo ogni volta a dissimulare, mentirmi, ingannarmi, raggirarmi per riscoprimi, a distanza di pochi minuti, immerso nella stessa brodaglia di mediocrità.
Ho covato rabbia contro me stesso e stima per quanto bene riuscissi a rigirarmi nel mio tedio. Quasi quasi sono pure riuscito a farmi compagnia.
Ciò che ha reso tutto più denso e patetico è stata la totale mancanza del segnale internet. Io e i miei pensieri, e nessuna valvola di sfogo. Ho maledetto il vicino per aver avuto la brillante idea di cambiare la password proprio in questi giorni. Poi ho maledetto me stesso per aver pensato fosse colpa del vicino. Ma l'angelo sterminatore come viene se ne va. Torna internet, e io esco.
Credo sia il peggior post che abbia mai scritto, i migliori sono quelli che ho person in questi quattro giorni, ma non me ne frega un cazzo, fuori c'è il sole, non indosso più la tuta da ginnastica, e tra due secondi esco di casa. Guaio ha la pallina in bocca.

28 novembre 2010

Nessuno si salva dall'infanzia


Aprendo la porta di casa mi si sono avventati contro i ricordi della mia infanzia. L'avrò aperta milioni di volte con quella sacra sensazione di chi arriva ad un porto sicuro. Poi ci si allontana per un po' di più del necessario e subito non la si riconosce. Il salotto era immerso in un buio denso, frantumato solamente dalla fioca luce di una lampada da tavolo. Una figura immobile stava immersa nel divano, come facesse parte dell'arredamento. Il tubo catodico proiettava in quegli occhi disillusi un fiume di immagini e suoni che una volta avrei riconosciuto come parole. Ho appoggiato la giacca sullo schienale di una sedia con la cautela di chi non vuole rompere irriverentemente un rituale.
“Quante volte t'ho detto d'appenderla in entrata, sull'attaccapanni. È fatto apposta!”
Congelato con la mano pendente mi sono sottomesso all'ordine ricevuto. Ho raccolto la giacca e mi sono diretto nell'oscurità fino al posto indicatomi. Poi sono tornato sui miei passi, prendendo posto in un lato del divano.
“Come stai papà?” ho chiesto dimesso.
“Questi figli di puttana ce le vogliono far bere tutte” ha risposto senza distogliere lo sguardo dal televisore.
Mi sono schiarito la voce, quasi convinto di non aver articolato bene, o d'aver parlato più piano di quanto credessi. Poi mi sono immobilizzato per qualche minuto, cercando d'orientarmi in quel posto che quasi non riconoscevo più.
“Finalmente ho trovato un lavoro” ho detto facendomi coraggio.
Nessuna risposta, solo un vociferare indefinito che proveniva dalla tribuna politica. Lo stato d'emergenza perenne in cui versava lo stato da troppo tempo sembrava imitare la tensione drammatica del momento. Mi sono passato le mani sui pantaloni. Il frusciare ripetitivo amplificava il senso di disagio in quel silenzio che amplificava enormemente le distanze. Il respiro lento di mio padre, i suoi occhi fissi e rassegnati, quell'immobilità costante mi pesavano addosso come una cascata di sassi.
“Come faranno a pensare che ci sia qualcuno disposto a credergli” tuonò mio padre rompendo il silenzio.
“Non capisco come tu possa ancora stare qui ad ascoltare tutte queste stupidaggini” ho risposto sommessamente.
“E pensare che tuo nonno ci credeva così tanto nel partito”
“Erano altri tempi”
“Altri tempi un corno!”
Non me la sono sentita di proseguire su quel sentiero. Dovevo assolutamente sbloccare la situazione, accendere una luce, spegnere quel televisore, urlare se necessario, ma si, l'incomunicabilità mi stava ammazzando secondo dopo secondo.
“Ti spiace se fumo?” ho chiesto portando nervosamente la mano alla tasca.
“Da quand'è che fumi, scusa?”
“Più o meno da quattro anni”
“Guarda! Ma guarda te che facce da culo. Certo che bisogna averne di fegato a mentire con quel sorriso, fottuti bastardi”.
“È tutto uno show. Te l'ho detto, la televisione deve restare spenta” ho risposto in una nuvola di fumo.
“Finirai per pentirti d'aver iniziato a fumare. È veleno quello che respiri, te ne rendi conto? Finirai con l'ammazzarti se non smetti”
“Non ho l'ambizione di vivere cent'anni”
“Lo dici perché sei giovane, ma un giorno ti attaccherai alla vita come un folle”
“La tua non è più vita, papà, è un'attesa”
“Sono tutti dei figli di puttana. Ma gliel'ho detto al presidente. Io non mi tessero più se le cose non cambiano”
Ad un certo punto mi sono accorto che mio padre aveva rotto il suo immobilismo. La sua mano sinistra si muoveva lentamente nello spazio che ci divideva. Accarezzava debolmente il posto dove sedeva sempre mia madre quando ancora questa casa era viva. Un nodo alla gola bloccava il fumo, ultima risorsa. Ho preso il posacenere dal tavolino spegnendoci la sigaretta con la violenza di chi sta togliendo una vita, una vita che arde. Ho tirato un lungo sospiro cercando per quanto possibile di vuotare la mente, di rilassarmi, di rendermi meno ostile nei confronti di quell'atmosfera. La mano di mio padre si era stretta a pugno. Il divano presentava ancora un'infossatura come se qualcuno si fosse appena alzato, e il suo pugno cercava irrimediabilmente di colmare quel vuoto.
“Mi sono trasferito in un appartamento più grande, ora posso permettermi di vivere comodo. Il mio capo dice che c'è una buona possibilità di carriera se mi do da fare” ho ripreso come se nulla fosse.
“Hai notizie di tua madre?”
“Mi scrive di rado, ma credo stia bene”
L'immobilità stava minacciando di congelarci in quella situazione per sempre, il divano sembrava liquefarsi sotto il mio corpo, lasciandomi affondare fino al collo. Di nuovo ho reagito. Ho tirato fuori il pacchetto di sigarette, ne ho estratte due mettendomele entrambe tra le labbra. La fiamma dell'accendino ha lanciato un lampo sul volto di mio padre, e i suoi occhi sono sembrati muoversi lucidi verso la luce. Deve essere stata questione di un attimo. Ho acceso le sigarette.
“Tieni” ho detto bonario porgendogliene una.
“Non vorrai mica uccidermi” chiese mio padre girandosi di scatto. Era la prima volta da quando ero entrato che mi guardava negli occhi. Forse era la prima volta in anni che mi guardava negli occhi.
“Non vorrai mica vivere cent'anni davanti a sto fottuto televisore” gli ho detto scherzoso.
“Sono tutti dei figli di puttana” ha detto sbuffando una nuvola di fumo.

21 novembre 2010

scrittura creativa.

Continuano le lezione di sto cazzo di corso di scrittura creativa. Dopo aver saltato 2 lezioni dando il tempo al vecchio insegnante di levarsi dai piedi con il suo sorriso da scrittore di libri noir, ho accolto l'arrivo della nuova docente con entusiasmo. Nonostante abbia detto a tutti e 20 noi scrittori promessi che abbiamo talento, dimostrando così di mentire spudoratamente, o cosa peggio di non aver assolutamente senso critico, ho voluto darle una possibilità. Io, personalmente, avrei sparato in fronte a 5/10 persone sul momento per l'insulto delle loro banalità, e tranne 2 o 3 (e sono buono) gli altri li avrei passati al corso di stenografia della sala affianco. Non capisco perchè certe casalinghe annoiate decidano di partecipare a questo genere di corsi. In realtà non capisco nemmeno come a una persona come me possa venire in mente di frequentare questi corsi. Comunque sia, salvandosi in corner, l'insegnante ha dato un compito per casa. Scrivere un racconto breve seguendo il motto "show, don't tell" che sa tanto da vecchia scuola di scrittura creativa all'americana. Wow. Tutti presenteranno la loro storiella in cui la ragazza sbarca da una Porche Ceyenne sposando il tronista di turno andando in luna di miele da Briatore con il Berlusca che canta romanze napoletane con la bandana in testa. Io ho scritto questo.  Che faccia faranno alla lettura del mio primo pezzo? Dico solo una cosa. Leggerò per ultimo. A voi:

Il telegiornale sputava parole dall'alto della sala gremita. Nessuno nel bar prestava davvero attenzione a ciò che accadeva altrove. Il barista stentava a stare dietro alle ordinazioni che arrivavano da più lati del bancone, e come un domatore si faceva largo tre braccia alzate che sventolando banconote sonanti pretendevano d'essere servite. Defilata in un angolo una coppia ignorava tutto e tutti baciandosi come se fosse proibito. Le mia seconda birra ormai stava terminando e non capivo se ciò che mi preoccupasse di più era la coda per ottenerne un'altra, o il fatto che Giulia non fosse ancora arrivata.
Il notiziario aveva lasciato il posto ad un varietà di basso livello, uno di quelli in cui la gente partecipa solo per urlare, per dimostrare che esiste. La porta aveva un gran lavoro nel far entrare e uscire gente, ma di Giulia nemmeno l'ombra.

Seduto dietro di me un gruppo di liceali faceva a gara a chi la raccontava più grossa, e tra il fragore di grosse risate si davano tutti il turno più inventando che ricordando. Uno di questi mimava nell'aria le forme di qualcuna che probabilmente non ha nemmeno mai visto. Il racconto sembrava interessare più le due ragazze sedute di fronte a me di quanto potesse interessare a chi di storie come quelle ne ha inventate già troppe. Ho preso il vuoto del mio bicchiere e mi sono avvicinato al bancone, defilato, senza mai perdere di vista la porta d'ingresso. Quelli che aspettano nel modo in cui aspettavo io vengono sempre serviti prima, perché sono sempre quelli che continuano ad essere serviti anche dopo che la ressa se n'è andata dal bar.
“Scusa avresti mica una sigaretta da offrirmi?” mi chiede una voce femminile interrompendo i miei pensieri. Il tono di voce non mi è conosciuto e con rammarico mi volto. Un viso dolce mi osserva in attesa. Sorrido di rimando e senza dire nulla le porgo il pacchetto aperto di Lucky Strike, le sigarette di Giulia. La ragazza esce soddisfatta a fumare sotto il pergolato.
Nel pacchetto mi restano 3 Lucky e mi convinco che fumandole tutte di fila avrei raggiungo il limite di sopportazione massimo, dopodiché potevo anche andarmene. Pago la birra. Il resto normalmente è solo di carta quando te ne servono due. A me hanno dato gli spiccioli.
Erano due settimane che Giulia era sparita nel nulla, e non capivo se ci fosse stato un equivoco nell'appuntamento. Continuavo a ripetermi nella testa che avevamo stabilito per le otto di sera, nel nostro solito bar. Forse non era giusto il giorno, mi dicevo. Ma anche quell'ipotesi era da scartare. Mi infilo in bocca la prima delle tre sigarette che mi restavano nel pacchetto, e prendo la via dell'uscita.
“Si fuma solo fuori” mi urla il barista che sembra perso nel caos, ma in realtà ha occhi anche dietro la testa.
“Sto uscendo, che ti credi” rispondo in tono secco.
Arrivato sotto il portico mi siedo ad uno dei tavoli liberi. In realtà ce n'erano un sacco con il freddo che faceva. Cerco nervosamente l'accendino in tasca senza speranza.
“Vuoi accendere?” mi chiede la stessa ragazza che prima m'aveva chiesto una sigaretta.
“Grazie” riesco a pronunciare mentre penso che se non le avessi dato quella sigaretta probabilmente Giulia avrebbe avuto qualche minuto in più per arrivare. Ma non ce n'era bisogno in realtà, appena mi rigiro mi ritrovo gli occhi di Giulia piantati addosso. Si era tagliata i capelli, e mentre la osservavo dalla distanza di due settimane mi stupivo nuovamente di quanto fosse ammaliante. Portava un paio di minigonne appena comprate, e lo sapevo perché quando usciva con me non le servivano.
“Ti prendo una birra?” chiedo quasi sottovoce.
“Sempre il solito, con le minorenni ti metti a parlare. Comunque niente birra. Ho solo due minuti, giusto il tempo di una sigaretta” dice duramente mentre estrae un pacchetto di Marlboro rosse.
Deglutisco un po' di saliva. Poi mi pulisco la bocca con un sorso di birra, senza voler rompere il silenzio per primo. La gamba iniziava a tremare nervosamente.
“Non c'è bisogno che tu dica nulla” le dico per metterla a suo agio.
“E mi hai fatto venire fin qui con sto freddo per non dirmi nulla?”
“Volevo solo vederti un'ultima volta” le ho risposto freddo.

P.S. Per onestà intellettuale devo dire che l'idea dello scambio delle sigarette non è mia, ma siamo democratici quando ci fa comodo. no?

18 novembre 2010

squallore.

E così il pugno sembrerebbe che sia servito a qualcosa. Il telefono suona, è Claudia, dice che vuole venire a trovarmi. Stavo seduto sul divano leggendo e fumando sigarette come se fosse proibito.
"Perchè no?" rispondo aggrappandomi all'inaspetatezza come l'altra sera ai suoi occhi. Tutto purchè qualcuno mi salvi da me stesso.
"Prendo il treno e arrivo da te dopo cena".
"Ti aspetto" e riaggancio.
La prima cosa sensata a cui penso è di richiamarla, vorrei dirle che c'è stato un malinteso, che non so bene come poter fare ad affrontare una sconosciuta. Il problema di dare appuntamento a qualcuno a casa propria è che non puoi scappare. Ti sono entrati nella gabbia.
Iniziano a sudarmi le mani e in testa continuo a pensare che quasi sicuramente Claudia ha messo in preventivo di fermarsi a dormire da me. Treni dopo cena ce ne sono pochi, e bastano poche chiacchiere per perderli tutti e dover aspettare mattina.
Mi muovo senza saper che fare, se dover riordinare, pulire, lavarmi o che. Mi accendo una sigaretta e aspetto passivamente cercando di nascondere a me stesso una certa eccitazione che si fa avanti nei pantaloni. Una sconosciuta a casa mia. In fondo Claudia per me non era altro che due occhi e un numero di telefono che forse non avrei usato mai.
"E fatti sta cazzo di scopata" mi impone il mio sesso dal basso.
Sento l'irrimediabile avvicinarsi e cerco in tutti i modi di prenderlo con filosofia. In fondo se mi aveva colpito, se mi ci ero riconosciuto.. magari può solo venire a curare le mie ferite.
Un messaggio mi chiede di andarle in contro. Scendo al volo, Guaio (il cane) mi guarda perplesso. Me la trovo davanti all'improvviso con un sorriso disperato. Questa sta peggio di me penso, e un po' mi consolo. Annulliamo la distanza tra noi, mi bacia.
"L'ho fatto subito per togliere l'ansia di doverlo fare dopo" dice con imbarazzo.
Mentre passeggiamo verso casa noto che la sua andatura è notevolmente ostacolata da dei tacchi da trampoliere. Camminava come una bambina che gioca a fare la femme fatale. La osservo con la coda dell'occhio e percepisco dal suo sguardo e dal modo in cui è vestita che deve aver avuto una paura fottuta di non essere all'altezza, e per questo ha preferito abbigliarsi alla "puttanesca". Meglio mostrare che qualcosa di buono c'è (di fuori) anche se dentro sta morendo. Mi suscita tenerezza, smarrimento e rallentando il passo l'accompagno a casa mia.
L'imbarazzo di entrambi si taglia col coltello e io mi convinco sempre di più che non ho nulla da dirle in realtà. Ma ormai ci sono dentro, dentro fino al collo.
"Raccontami qualcosa" mi chiede ogni volta che ho finito di raccontarle qualcosa.
"Non ho più palle da inventarmi" rispondo dispiaciuto.
"Allora stiamo un po' in silenzio, mettiamo su un po' di musica".
Credo sia stato il nervosimo o l'eccessivo silenzio tra di noi che ci ha fatto finire a letto assieme, nudi, a scopare come corpi inermi. Ad ogni bacio finto sentivo l'anima spirarmi di dentro. Ad ogni suo sospiro di troppo un brivido d'imbarazzo mi correva lungo la schiena. Dopo quel poco piacere che siamo riusciti a procurarci mi sono assorto in un abbraccio compassionevole. Continuavo a pensare che anche lei stesse provando la stessa cosa, ma probabilmente aveva più bisogno di quello che del nulla che si portava appresso. Di li a poco è riuscita a prendere sonno, io sono andato a finire il pacchetto di sigarette, ho messo la sveglia alle 8 di mattina e le ho scritto su un foglio che ero uscito per lavorare, che poteva fare quello che voleva, poi bastava chiudere la porta.
Mi sono disteso con una sconosciuta nel letto, e la solitudine che ne stava germogliando mi toglieva il respiro.
Non so cosa sia successo, perchè non sia stato in grado di gestire meglio la situazione, almeno farla sentire a suo agio. Non sono un crocerossino, o meglio, non lo sono più. L'ho osservata mentre dormiva, sembrava fare bei sogni. Io non riuscivo a lavarmi lo squallore di dosso. Come quando usi un deodorante Axe. Avete presente?

17 novembre 2010

tutto per un secondo di goduria.

Quando mi sono fatto trascinare in una festa tipo "disco/cocaina/se paghi scopi" ho fatto finta di incolpare il fato per avermi messo in quella situazione. La verità è che me la sono andata a cercare. D. si è innamorata di nuovo, lui è un musicista che canta del male di vivere. Lei si porta addosso una bellezza ineguagliabile e un'intensità infuocata. Era logico che scattasse la passione.
Io non mi sopportavo, così lontano da tutto, senza un minimo di intensità, che quando ho sentito "festa", non m'è davvero importato con chi fossi. Ho seguito le luci perchè il buio di casa mia m'avrebbe dilaniato.
Tra me e i ragazzi con cui sono venuto non c'era apparentemente nessuna differenza: ce ne stavamo tutti appoggiati al bancone del bar a vedere chi si sbronzava prima. Non credo d'essere arrivato primo, ma ricordo il dolce sapore della vodka mischiata alla tonica cullarmi un po' in quel mare di solitudine. La musica e le luci creavano un'atmosfera dai retrogusti orridi. Le chiacchiere di circostanza sui culi che ci sfioravano m'hanno messo il serio dubbio di non trovarmi in una discoteca, ma sulla piazzola di un autogrill surreale, dove per 50 euro qualcuna/o ti avrebbe tolto il peso del menù rustichella.
Quando l'alcool aveva creato il necessario livello di spersonificazione, le bestie umane che si dicevano miei amici avevano iniziato a muoversi secondo quella natura repressa che li aveva portati li dentro. Un po' alla volta mi sono trovato solo, abbandonato nella folla, cercando risposte negli occhi del barista. I ragazzi stavano usando le loro compagnie improvvisate aggrappandosi a fianchi sconosciuti. Le loro labbra sputacchiavano complimenti dal gusto di naftalina, il loro scopo era un secondo di goduria. Scoprire negli occhi delle ragazze quel piccolo orgoglio per essere ammirate (non importa da chi) m'ha squarciato il cuore. Quanto, quanto vale tutto quello squallore? Quanto vale il complimento di chi ti tratta come un oggetto? Quanto soli bisogna essere per cercare amore in un contenitore vuoto.

Me ne sono uscito sul terrazzino a fumare. Come Edipo mi sarei strappato gli occhi di dosso per non vedere più nulla. Mi sono sentito in gabbia. Ho cerato un appiglio per non svenire, per non cancellarmi, annullarmi. E mi sono aggrappato ad paio di occhi che da lontano mi controllavano curiosi. É incredibile come si possa ritrovare contegno con un po' di fiducia. Quegli occhi mi guardavano e sembravano dirmi una sola cosa: "portami via". Ci ho messo due sigarette per convincermi ad andare a parlarci, non per paura, ma per evitare di schiantarmi da qualche parte nel tragitto. Intanto studiavo il suo guardarmi che come una carezza m'aveva infuso speranza. Se sono vivo è solo perchè tu, in questo momento, mi stai guardando. Quegli occhi avevano due gorilla affianco. Io come scudo non avevo nulla da perdere, così li ho affrontati.
Claudia stava peggio di me. Quei due esseri la opprimevano impedendole di volare. Nemmeno fossero stati due magnaccia. Le rubo due parole, una sigaretta e il numero di telefono. Mi tiene la mano come fosse una bambina. Le sorrido con riconoscenza, non credo mi piaccia davvero, ma almeno per questa sera potrò andare a letto sapendo che qualcuno come me non si è divertito li dentro. Prima di scivolare verso il bancone del bar osservo con cura i guardaspalla che non mi staccavano gli occhi di dosso.
"Cazzo guardi, stronzo" dico a uno dei due.
Un pugno di arriva caldo sul labbro. Attendo un secondo. Mi avvicino porgendo la mano e prima che possa stringerla gli do una ginocchiata sui coglioni che deve essergli penetrata fin dentro il suo ripostiglio d'orgoglio, scassando tutto. Claudia sorride preoccupata per la mia sorte. La osservo l'ultima volta in quell'attimo di pace prima che si scateni il finimondo. Due secondi dopo i buttafuori fanno il loro sacrosanto dovere, separandoci e buttandoci fuori da uscite diverse. Il mio visino è salvo.

Una volta ogni tanto la sorte mi ha salvato da una fine certa, e non mi riferisco ai due gorilla.

11 novembre 2010

Nemesi



La vita a volte tende agguati. Ho passato gli ultimi due giorni insolitamente spensierato. Sono uscito fischiettando, ho giocato con Guaio. Mi ha pure dato una mano a rimorchiare. Due chiacchiere e una birra. Parlavo del più e del meno, ascoltavo quello che mi si diceva. Ho lasciato pure il mio cinismo a casa, dimenticato sbadatamente in un angolo. Il giorno dopo ho pure scopato, una di quelle scopare mediocri che però hanno il potere di farti svegliare quasi di buon umore il giorno dopo. Non mi stavo a chiedere cosa stesse succedendo, vivevo, e lo facevo come gli altri. Negli ultimi due giorni sono stato una persona normale.
Sta sera sono rientrato, e li, sulla soglia di casa un agguato m'aspettava. L'ho riconosciuta in un istante. Il fuoco m'è divampato dallo stomaco dritto in faccia, il tempo è rimasto sospeso, e le pareti si sono sbriciolate sotto il mio sguardo smarrito.
"Oh se questa troppo, troppo solida carne, potesse disfarsi squagliarsie sciogliersi in rugiada. Oh se l'Eterno non avesse scritto la propria legge contro il suicidio. O Dio, Dio, come mi sembrano tediose, stantie, banali e senza profitto tutte le usanze di questo mondo!" (Amleto)
Il flusso di pensieri senza scampo m'ha braccato, sfiancato fino a finirmi qualche metro più in la. É durato un eternità l'attimo in cui con rabbia avrei strappato gli occhi all'umanità, e con ferocia mi sarei avventato contro ogni parola, sillaba inutile pronunciata in questo mare di silenzio. Vattene tu dove ti pare, lasciami vivere. Sono un reietto e da quelli come me non pretendere mai un briciolo di coerenza, normalità. Siamo bestie in agguato, e la vita, in un attimo sa riprendersi quello che tu a forza gli hai strappato.
Nudo su questa terra piatta a cercare un rifugio.
Tu, mio simile, che mi guardi con occhi interrogativi, se non sai comprendere, non chiedere, semplicemente volgi lo sguardo da un'altra parte, e dimentica quello che hai visto.

4 novembre 2010

Uno nessuno centomila

"Conosci te stesso". Quante volte l'avete sentito dire? Quante volte vi è stato propinato come consiglio sull'acquisto di una personalità?
"Devi conoscere te stesso, solo così starai bene". Palle.
Chi conosce se stesso è così idiota da avere una sola personalità. Probabilmente non cambia nemmeno mai idea, perchè con quelle poche che gli arrivano non può nemmeno pretendere di mettersi a confutarle tutto il tempo.
"Trova il tuo equilibrio" è invece il postulato a cui si dovrebbe arrivare dopo essere arrivati a conoscere se stessi.
"Ciao, piacere, sono te stesso, e guarda.. so stare in piedi su una gamba sola".
Siamo tutti il frutto di quello che vediamo, leggiamo, ascoltiamo e impariamo. Ovviamente più cose passano per il cervello di una persona più semplice è che le sinapsi riescano pure a formulare pensieri complessi. Il problema è che la gente che da buoni consigli è quella che si ferma al primo pensiero complesso. Non lo decuplica, non lo eleva a potenza, non lo spreme e rigira e dilata e annulla. Cioè, quello che ti stanno dicendo quando ti raccomandano di conoscere te stesso è: usa un po' il cervello, e quando ti sembra di aver trovato una verità, fermati. Questo è ovvio, perchè se arrivassi ad un'altra verità ci sarebbe un bel problema da risolvere: o una delle due è sbagliata, o magari tutte e due. Normalmente chi ha di questi problemi non trova mai il tempo per verificare, si limita ad andare in chiesa e chiedere a qualcuno di prestargli la sua verità: comoda e collaudata.
Io non sono nessuno, non mi conosco, ne lo pretendo. Soffro ogni volta che mi scopro diverso, imprevedibile, innamorato e disilluso, ottimista e perverso, solo e socievole, crudele e misericordioso. Non so chi sono, e vorrei, vorrei con tutte le mie forze tornare ad essere il bambino di una volta, ma nel mondo dei pensieri non esiste lo smacchiante, e il candore dell'idealismo ha vita breve di fronte ad una tavola imbandita com'è la vita.

3 novembre 2010

Emile Cioran


"Chi prima della trentina, non ha subito il fascino di tutte le forme di estremismo, non so se devo ammirarlo o disprezzarlo, considerarlo un santo o un cadavere. Non si è forse posto, per mancanza di risorse biologiche, al di sopra o al di sotto del tempo? Deficienza positiva o negativa, che importa! Senza desiderio né volontà di distruggere, egli è sospetto, egli ha vinto il demone o, cosa ancor più grave, non ne è mai stato posseduto. Vivere veramente vuol dire rifiutare gli altri; per accettarli, bisogna saper rinunciare, farsi violenza, agire contro la propria natura, indebolirsi" - Emile Cioran [Storia e utopia]


Sono nuovo del mondo dei blog, ma una cosa l'ho capita, qui si fa davvero quello che si vuole. Come ho già ripetuto altre volte, non scrivo per compiacere, ne per divertire, ne per altri scopi che abbiano come fine l'altro e non me stesso. Ultimamente mi si è rimproverato di essere sempre depresso quando scrivo, di svelare il mio pessimismo, la mia malinconia, come se fossi un capitalista del rigurgito. Non scrivo perchè la gente possa fare, come diceva sempre D., "discorsi da caffettino" sui miei pensieri, analizzandoli o cercandoci paturnie. Non sono qui per farmi nè analizzare, nè psicoanalizzare. Sono qui perchè se non scrivo scoppio, perchè non ho interlocutori ne auditori che mi comprendano, che ascoltino, e che senza dire nulla prendano solo il buono di ciò che c'è in quello che scrivo. Il buono sta in una rivincita nei confronti della vita, delle persone, di questo inferno impermeabile all'originalità. Omologazione, luoghi comuni e paura. Paura di ascoltare il diverso, perchè sembra sovversivo.
Se stavo bene non mi mettevo davanti allo schermo a scrivere, ma andavo fuori a scopare, come succede nei giorni in cui non ci sono miei post presenti. Come dite? questa non è la pattumiera dell'anima di nessuno? Provate a spiegarlo a chi non ha una morale, nè un'etica.
Poi, come se davvero esistesse la provvidenza arriva un commento solo, che da un senso a quello che faccio:Elimina
Anonimo Anonimo ha detto...
Io a leggere i tuoi post non mi annoio affatto, li trovo taglientemente ironici e spezzano il senso di solitudine! grazie

Non era necessario, ma in fondo è tutto li, in quel grazie alla fine. Qualcuno è passato di qua e non si è sentito l'unica mosca verde del mondo. L'unico problema è che le mosche verdi parlano poco.


P.S. Il video di Cioran è un'intervista completa. Ho postato solo la prima parte di quattro. Vi lascio con un suo aforisma in cui rivedo tutto me stesso: "Se mai dovessi abbandonare il mio dilettantismo, è nell'urlo che mi specializzerei".