24 settembre 2010

Gracidio


Si è fatta aspettare quasi una mezz'ora buona prima di arrivare con il suo sorriso. È solo la seconda volta che esco con Sara, e questo suo sentirsi padrona del mio tempo m'ha ammazzato lentamente con una sigaretta di cinque minuti in cinque minuti. L'orologio non è mai andato così lento, le mie mani sudate torturavano il polso in cerca di una qualche giustificazione, ma nulla sembrava quietarmi. Se lascio libera la mia mente tutto è dubbio, e la mia impotenza mi si manifesta con violenza.
Quando intravedo la sua sagoma sbucare da dietro l'angolo della piazza subito cerco il contegno che credo di non riuscire a simulare. Spengo la sigaretta come se fossi Humprey Bogart in uno dei suoi migliori profili, strofino le mani sui pantaloni e attendo che si annulli la distanza tra noi. Lei mi saluta spensierata con un bacio sulla guancia e non posso credere che sia così tranquilla. Iniziamo a passeggiare senza nessuna meta precisa, solo prendendo la direzione che i nostri corpi più comodamente hanno impostato da soli, e proseguiamo tra qualche chiacchiera di circostanza. Il mio savoir faire tarda a comparire perché lo attendo con ansia. Mentre fingo la mia sicurezza lei prende in mano la situazione, e inizia a raccontarmi del suo giorno, del film che ha visto e di quanto l'abbia toccata quella storia dei campi di concentramento polacchi, di cui, fino ad allora ignorava l'esistenza. Penso a quanto poco mi interessi tutta quella storia, così ingordamente fattaci mangiare tra i banchi di scuola, come se fosse l'unica tragedia di cui l'umanità abbia ricordo, dimenticando la tragedia di cui tutti su questa terra siamo vittima: la solitudine.
Sento che il mio cuore inizia a prendere a palpitare ad un ritmo più controllato, e l'ascolto nel suo farneticare concetti e verità in cui non credo assolutamente, ma l'assecondo, come faccio sempre, lasciandole credere che davvero sia importante quello che pensa del nazionalsocialismo. Lei continua a girarsi verso di me con un sorriso smagliante, quasi inconsapevole del fascino che esercita su di me, oppure troppo consapevole da riuscirle naturale. Fa un po' di freddo, ma non giustifica il tremore delle mie mani, e il tremore delle mie mani è incomprensibile se solo penso a quanto in realtà siamo lontani Sara ed io. Ha una giacca leggera che le mette in risalto la figura, e al di la di quello che dice mi sento profondamente attratto da lei, come se con la sua bellezza possa davvero mettere a tacere l'inquietudine che mi porto dietro.
Le sue parole e il battito dei suoi occhi mi rimbalzano addosso con perplessità. Mi accendo un'altra sigaretta, annuisco e mi sento consapevole della necessità di una svolta immediata. So, con tutta la forza che solo l'umiliazione di un rifiuto sa trasmettere che devo entrare in partita, giocare, fingere, darle quello che lei vuole. Darglielo ora, sennò ciò che resterà nei miei occhi di lei sarà solamente il ricordo della sua figura che si allontana così com'è venuta.
“Aspetta un secondo” mi dice allontanandosi tra un discorso e l'altro. Dopo poco torna con un paio di birre comperate per strada. “Conosco un parco qui vicino, è giusto a due minuti a piedi, ti va?”
Rispondo di si, e mi faccio guidare dalla sua gioia. Ci si racconta ancora un po' di vita, di sogni. Soffro nel comprendere che io vivo più della prima, e lei ancora troppo dei secondi. A lampi mi torna in mente il flusso che mi ha prodotto, e inconsapevolmente cerco quel punto di rottura in cui ho smesso di lasciarmi trasportare, e mi sono immobilizzato in me stesso, troppo concentrato su ciò che sono, come un animale in una specie di gabbia di cui riesce a presagire le sbarre, senza però vederle.
Si ride, anche se io non so farlo con quella spontaneità che invidio, ma chi c'ha voglia di spiegarglielo. Sara non può capire, e io non ho le parole giuste.
Arriviamo al parco, e mi stupisco nel vederlo così perfetto. La nebbia ha steso un lieve manto sul prato e io mi sento quasi come un fantasma che fluttua sulle cose, senza la possibilità di cambiarle minimamente. È Sara l'essere umano, io sono solo un'ombra.
“E non fumarti tutto il pacchetto” mi dice sfilandomi la sigaretta dalle labbra.
“Non ricordavo che fumassi” rispondo di riflesso, credendo che anche quello in fondo è conversare. “I vizi si prendono con la stessa facilità con cui si perdono le virtù” dico con tono paternalistico.
“Sei proprio barboso sai?” risponde ridendo.
Ad un certo momento le chiacchiere sono finite, e il mio cercare inutilmente qualcosa di grandioso da dire non faceva altro che aumentare la scomodità di entrambi. So solo essere ripetitivo, ma come si fa a spiegare che la sua sola presenzasa mettermi in difficoltà più di una platea di decerebrati? Ce ne stavamo li seduti nell'erba bagnata a sorseggiare la birra quasi finita. Poi è iniziato un leggero gracidio, che s'è fatto più intenso man mano che il silenzio si faceva più presente.
“Non trovi che il canto delle rane sia così romantico?” mio ha chiesto sorridendomi. Si stava nascondendo la bocca dietro le braccia conserte, in attesa. Era davvero bellissima Sara, con quegli occhi pieni di vita.
“Lo trovo straziante” ho risposto senza controllo.
“Come scusa?” mi chiede attonita, quasi incredula. Il suo sguardo si chiedeva come avessi fatto a rovinare anche quel momento.
“Le rane non stanno cantando” rispondo in tono più diplomatico. “Il loro è un urlo di disperazione, vogliono a tutti i costi essere scelte da qualche rana. Lo fanno perché l'idea di rimanere sole le dispera tanto quanto l'idea di non lasciare nessuna traccia di sé”.
Il silenzio è rimasto intatto dopo le mie parole. Abbiamo finito la birra e ci siamo alzati. Sara guardava l'orologio, e sapevo che non l'aveva mai fatto in tutto il tempo passato assieme. Quando mi ha salutato ho percepito una sfumatura di affetto nel suo bacio. Non un briciolo di passione. Mi sono fumato l'ultima sigaretta guardando l'erba di fronte a me. Poi ho visto una piccola rana saltarmi nei pressi. Non gracchiava come le altre, e sembrava aver perso la strada per il fossato. L'ho raccolta tra le mani e l'ho guardata con tenerezza. Prima di andarmene via mi sono preso la briga di schiacciarla con il tacco della scarpa. Ho cercato nervosamente l'accendino, ma poi ho pensato che non sarebbe servito a nulla, non avevo più sigarette.

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