E' arrivata con un maglione sformato, rosso, uno di quegli indumenti che ti metti quando sei a casa, in divano. Portava dei pantaloni della tuta. E' stato un brivido pensare che solamente credesse d'avere la confidenza per potersi vestire così con me. Era meglio di vederla in ghingheri, o nuda, o in qualsiasi altro modo. Mi sentivo a casa, con lei, seduti nell'intimità delle nostre cose. In mondo non esisteva più. Abbiamo iniziato a camminare lungo il lato esterno del parco del centro, in senso orario. Parlavamo, e io mi sentivo sempre così terribilmente in colpa per interrompere i suoi discorsi con la mia mania di protagonismo, come se fossi sempre sul punto di doverle dimostrare che valgo, che avrebbe una buona ragione per stare con me. Al tornare nel punto in cui ci siamo incontrati abbiamo proseguito in circolo iniziando un secondo giro del parco.
Nel realizzare questa cosa mi continuavo a ripetere che se fossi riuscito a farle fare anche un terzo giro con me, sarebbe stata mia per sempre.
Al terminare il secondo giro non ho saputo resistere, come se l'idea di poterla aere fosse troppo, una vertigine incontrollabile, e sneza interpellarla ho tirato dritto, verso via Roma, verso il momento in cui l'avrei salutata per sostituirla con una dilaniante nostalgia. L'ho guardata sfilarmi lontano nella sua esile figura. Aveva la sua solita camminata di chi non ha fretta perchè non ha destinazione. Si è girata una volta, ma non per guardare me, qualcosa alla mia sinistra l'aveva attirata. Se solo sapesse che le ho regalato il dono dell'ubiquità m'insulterebbe per la carcerzazione forzata del suo doppio nel mio cuore. Se ne va ignara del sangue che verso ad ogni parola non detta, ad ogni bacio bramato ma non consumato.
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