Gli occhiali da sole non riescono mai a schermare completamente l'invadenza del sole primaverile. La neve si frantuma e il disgelo lascia vedere ciò che per mesi, se non per anni, è giaciuto sotto il freddo peso. Ho passeggiato per la città lentamente, condizionato dall'andatura zoppa del piccolo Guaio, da poco operato ad una zampa. Lo osservavo spingersi in avanti verso la vita, un passo più in la, con l'ostinazione di un cucciolo di un anno e mezzo. Lo sguardo mogio fissava il suolo appena qualche centimetro avanti al naso, ogni passo era quasi un salto che sperava di lasciarsi il dolore alle spalle fuggendogli poco più avanti. Per la prima volta da quando passeggio con Guaio non riuscivamo a sorpassare veloce i pedoni, che ora mi scansavano come un infermo, come fossi unto. Più volte ho evitato i loro sguardi per paura: paura che vedano la zoppia della mia anima.
D'un tratto, senza che nulla lasciasse presagire una simile intenzione, Guaio s'è fermato in mezzo alla strada. Non è stata una delle sue normali soste, una di quelle per prendere fiato, o per mollare una pisciata rapida, nemmeno una pausa per grattarsi l'orecchio. Guaio s'è semplicemente immobilizzato, ha alzato il suo piccolo muso bianco e con occhi languidi m'ha detto: "io mi fermo qui". Il dolore che si porta addosso l'ha atterrito infine. Il fottuto dolore ha vinto anche contro la sua energia, contro il suo innato amore per la vita, per le corse, per quella pallina che per un lungo mese non potrà vedere. Guaio s'è inchiodato in mezzo alla strada.
Non c'è voluto molto perché la frenesia del mondo reale venisse a disturbare, senza alcun tipo di sensibilità, la tragedia che si stava consumando in quei pochi kili di tenerezza. Mi sono chinato su di lui, gli ho afferrato il muso con entrambe le mani proteggendo la sua disperazione, la sua stanchezza, la sua rassegnazione.
"Nemmeno io ce la faccio più, ma tra qualche passo potrai riposare" gli ho detto piano.
Le auto avevano già iniziato a strombazzare violente contro l'ostacolo che rappresentavamo. Alcuni passanti mi osservavano discutendo tra di loro sul perché fossi chinato immobile di fronte al mio cane, in mezzo alla strada. La tragedia non sceglie mai un posto per esplodere. Accade e basta. Il vociferare e le occhiate storte si facevano più rumorose dei clacson delle auto e degli insulti non detti. Ma io non mollavo il muso di Guaio. Intanto i passanti stavano sperimentando quella solidarietà sparlante di chi assiste ad una tragedia. Il dolore ha il suo macabro fascino.
Saranno passati due minuti buoni, forse un'eternità, prima che Guaio alzasse il culo dal suolo rincuorato da un po' d'amore. Con un sorriso l'ho guardato negli occhi smarriti. Rialzandomi ho gentilmente mostravo il dito medio a quel fottuto mezzo direttore di banca che dall'alto della sua cravatta colorata mi guardava impetuoso. L'abitacolo era così pieno di frustrazione e rabbia che ho sentito una fitta al cuore quando i nostri occhi si sono incrociati. Il mio dito imperativo stonava con la compassione che ho provato nel vederlo così perduto in una corsa per non andare da nessuna parte. Ma il dito non l'ho abbassato finché non è arrivato l'insulto. S'era sfogato, liberato della sua rabbia, e io mi sono sentito un po' meno in colpa.
Arrivati sul marciapiede Guaio è crollato al suolo in cerca di pace.
"Riposati finché vuoi, io sto qui con te" gli ho detto nella speranza capisse.
Mi sono sentito il suo angelo nero, che non sa fare i miracoli necessari, ma che sa dove mettere il cuore. Nell'arco di quei cinque minuti non avevo controllato il cellulare. Francesca non m'ha ancora risposto. Mi sono voltato in cerca del mio angelo, ma non c'era già più nessuno.
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