19 gennaio 2011

aneddoto sulla pazzia

Come sempre Diana mi stupisce una volta di più. M'ha raccontato un aneddoto sulla pazzia che non voglio scordare, e per questo lo appunto qui, al servizio di chi ne saprà trarre qualcosa di buono.

In un ospedale spichiatrico è rinchiusa una paziente particolare, la sua caratteristica è quella di dipingere sui muri della stanza, dipingere per non morire, anche se come pittura usa la propria merda. Magnifici disegni di merda sui muri che inservienti meticolosi devono ripulire ogni giorno, nauseati dall'odore stantio di una latrina mai pulita. Lo spichiatra di turno non sa che fare, crede che pulendo ripetutamente il muro prima o poi dovrà rimanere pulito, crede che la pazzia sia una questione di costanza.
Un giorno nella stanza della paziente entra un nuovo psichiatra. Non guarda nemmeno la "malata" negli occhi, è troppo impegnato a osservare la bellezza del dipinto su muro. Un dipinto fatto con la merda, ma stupendo. Non una smorfia, non un segno di cedimento per l'odore che gli fracassa le narici. Poi si volge alla donna, e fa un solo commento:
"È davvero stupendo, anche se manca un po' di colore"
"Non è colpa mia se non mi danno la vernice" risponde la donna.

Chi è il pazzo qui? La maggior parte delle malattie mentali sono la conseguenza immediata della stupidità di chi ha il potere di decidere chi è normale e chi no.

equilibrio

Nelle relazioni amorose esistono due tipi di persone: i muli e i purosangue. I muli sono fedeli compagni di vita, instancabili lavoratori, docili e domabili non si scansano alle frustate del padrone, e con umiltà e rassegnazione compiono il loro dovere, sempre e comunque, con devozione.
I purosangue sono tutto il contrario. Sono degl'impareggiabili figli di puttana, anarchici, egoisti, restii al giogo, imprevedibili, incontrollabili, ma fottutamente poderosi.
Il mulo serve per trovare un equilibrio fittizio, per perpetuare l'illusione della stabilità, per camuffare il cambiamento, negarlo fino alle estreme conseguenze.
Con un purosangue puoi cavalcare con il vento in faccia, sentirti Dio, ma sempre correrai il rischio d'essere disarcionato. Il mulo ti porterà a destinazione, ma mai, e ripeto mai, saprà regalarti un briciolo d'emozione.
Lo stesso paragone lo si può fare per il concetto d'equilibrio. C'è chi lo intende come il punto di stallo che nessun evento potrà perturbare. Altri, come me, che lo percepiscono come la summa di un funambolismo estremo, in cui osservi l'inferno sottostante dall'alto del paradiso in cui ti trovi.
In entrambi i casi la questione del cadere è solo un problema di tempo. Quello del cadere può essere una semplice conseguenza della gravità, oppure può essere un'arte.

Potranno sembrare parole senza senso, metafore dalle gambe corte, ma se c'è un purosangue tra chi legge queste righe, sicuro che capisce cosa intendo.

"Non mi fido di te, finisce che mi farò del male" mi ha detto Marta ieri sera.
"Anche tu vuoi un mulo, insomma" le ho risposto secco.

Il dolore è parte della vita, bisogna sempre aver il coraggio di accettarlo. Solo se vivi nell'inferno ogni singolo giorno sai riconoscere il paradiso quando lo incontri. Solo se vivi nel dolore e nella solitudine puoi afferrare ciò che di bello ti passa tra le mani, e attaccartici con tutte le tue forze, tenendolo stretto, fino a sanguinare.
Voi che non amate rischiare, che vi chiudete dentro una campana di vetro impauriti dal mondo, dalla sofferenza; voi che credete di starvene al sicuro nella vostra relazione piena di certezze, di rassicurazioni, di pacche sulla spalla; voi che fingete la maggior parte del tempo per la paura della perdita o ancor peggio dell'abbandono; voi, io vi compatisco. Quanto a me, voglio il vento in faccia, voglio sentirmi Dio, perchè solo così posso smettere di sentire l'odore della merda di tutti i muli del mondo, e finalmente vivere. E se dovrò cadere, come già m'è successo molte volte, non sarà un volo goffo seguito da un tonfo sordo. No signori miei, sarò un Icaro che in tutto il suo splendore piroetterà affrontando il suolo come la giusta conseguenza per aver voluto toccare il sole.

16 gennaio 2011

Weidmannsheil

Le prove di forza finiscono sempre per avere la meglio su di me. L'auto aveva appena iniziato a percorrere i 600 km che dividevano l'inciviltà che ci lasciavamo dietro e la mancanza totale di civiltà che ci aspettava davanti. Mio padre guidava silenzioso, mio zio russava, io non facevo altro che guardare fuori dal finestrino tenendomi saldo alla testa di Guaio che dormiva sulle mie ginocchia. La linea bianca intermittente dava un senso di tortura infinita, e scandiva il passo verso le montagne che ci aspettavano. "Qui non si prende più la radio, metto un po' di musica" dice mio padre.
Speravo non fosse Toto Cutugno o qualche altro cantautore provinciale italiano. L'ultima volta che ho ascoltato l'isola di white per poco non meno il dj, mi aveva fermato il solo pensiero di dover affrontare anche tutti quelli che facevano il coro. Parte un cd di Mia Martini. Mi sento scomodo nel rapportarmi alla sua completa ignoranza delle cose basilari del mondo, ma la sua sofferenza d'amore basta a calmarmi un poco. Solo la sofferenza sa placare altra sofferenza, o almeno la fa sentire meno fuori luogo.
Non so chi me l'ha fatto fare, non so se resisterò 48 ore di fila con il sangue del mio sangue a raccontarmi aneddoti sul come si deve uccidere un animale. La morte è già così presente nelle facce che incontro per strada che forse guardandola direttamente negli occhi di un animale morto e sventrato potrà esorcizzarmi, e spingermi verso la vita.
Le montagne ci inghiottono in canali scoscesi, poi sempre più ripidi. Continuo a pensare che alla fine di questa strada le pareti rocciose ci stringeranno in una morsa dalla quale non riusciremo più ad uscire. Non riesco a respirare e sto scoppiando dalla voglia di accendermi una sigaretta. Il mio occhio continua a scrutare il livello del carburante, prima o poi questa carretta dovrà pur fermarsi a bere benzina. Ma gli spostamenti millimetrici non mi laciano speranza, e sempre più mi convinco che sarò come Anna Frank, morta due giorni prima della liberazione. Io ci lascerò la pelle a 2 km dall'area di servizio per mancanza di nicotina.
Continuo a pensare ai buoni propositi, all'idea che mi ero fatto di un tete-à-tete con mio padre, l'uomo che mi guarda e non mi capisce. Volevo compiacerlo, passare un po' di tempo con lui. La caccia, ho pensato, è fatta di silenzi, così almeno le parole non serviranno. Volevo solo stargli vicino un poco, sentire quel senso di complicità che abbiamo perso, se mai abbiamo avuto. Lo guardo mentre scherza con mio zio seduto al suo fianco, io rido dal sedile posteriore, ma il mio sorriso non arriva davanti. Forse è meglio così, almeno non corro il rischio che appaia forzato. Guaio si continua a rigirare nel sedile cercando una posizione comoda, ma le troppe ore nella macchina lo rendono nervoso. Sento lui più affine di mio padre. Ogni tanto penso di chiedere di poter smontare qui, un modo per tornare indietro lo troverei facile. Ma ho la bocca incollata dall'illusione di mio padre d'avermi con lui. 
Finalmente l'autogrill, smonto ancora prima che l'auto si fermi, Guaio salta giù dietro di me. Abbiamo fatto solo 300 km, e sono passate solo 3 ore dalla partenza. 

8 gennaio 2011

io: il barbone

Mia madre è venuta a trovarmi. Sono appena passate le feste, e dopo qualche giorno di falsa benevolenza nei confronti del mondo è tornata ad essere puntigliosa più di prima. Il problema del 2011 sono io, il mio modo di comportarmi, di vestire, di portare barba e capelli: mi crede un barbone. Pure mio padre lo pensa, ma almeno ha il buon cuore di non venirmelo a dire. Lui si limita a dirmi bravo quando torno a casa fresco di rasatura (il che succede poco spesso). Mi fa sentire come Guaio quando fa qualcosa di buono. Io lo guardo e scodinzolo, ma penso sempre che vorrei saltargli alla gola se solo mostrasse un po' di cattiveria nel suo giudizio.
Tornando a mia madre, devo dire che la sua diplomazia nei miei confronti sta migliorando. Sta imparando la furbastra a trattare con un disadattato come me.
"Andiamo a fare compere? Pago io" mi dice diretta.
"Sai che odio andare per negozi, mi deprime".
"Facciamo presto, prometto che non ti metto fretta, tu solo scegli qualcosa che ti faccia sembrare meno barbone".
Continuo a pensare che l'appellativo barbone mi calza a pennello, e che, contrariamente all'immaginario collettivo, in me suscita un profondo senso di libertà. Non hai nulla, e nessuno ti chiede nulla. Cosa può esserci di meglio? Il fattore cibo e rispetto sono un po' carenti, ma con il fatto che io rispetto poco gli altri andiamo pari. Per il cibo.. vabbè non può mica essere tutto rosa e fiori no?
Monto in macchina con lei con gli occhi di un condannato a morte che vede davanti a sé il patibolo da cui penderà a breve. Cerco di evitare destinazioni come outlet, megastore, centri commerciali e roba simile. Se devo morire non lo farò alla gogna pubblica.
Contratiamo che ciò che mi serve è sostanzialmente qualche paio di pantaloni nuovi, un giaccone da sostitire a quello che porto abitualmente, e se ci scappa una maglia che rinfreschi un po' il guardaroba monoscromatico che mi caratterizza.
"E se ti prendessi anche un paio di scarpe?"
"Due piedi ho, un paio alla volta posso portarne"
Contrattiamo con il fatto che mi darà qualche soldo in contante perchè io mi scelga un paio di scarpe dignitose. Il soldo lo incasso, per le scarpe c'è tempo. Tempi duri questi.
Al rientro ero troppo soddisfatto, e soprattutto lo era mia madre. Incredibile. Ci ho messo la bellezza di 45 minuti per concludere tutte le transazioni con il mondo della moda. Ho totalizzato tre paia di pantaloni tutte uguali, stesso colore, stesso modello: ne provi uno e ne comperi tre, facile no? Una giacca invernale nera praticamente uguale a quella che già avevo, e un maglione di lana, nero pure quello. I colori non sono il mio forte, il fashion nemmeno.
Ah, la barba e i capelli li taglierò domani, promesso, così finalmente si che sarò un ragazzo bello e responsabile. Giusto quello che mi ci voleva: un falso restiling per un falso inizio di nuova vita. 

5 gennaio 2011

un vecchio amico

L'inferno sono davvero gli altri. Spesso non è nemmeno quello che dicono, ma il come lo dicono. Mi annientano. Mi ero appena ripreso dalla depressione natale-capodanno causa di sconvolgimenti alcolici non indifferenti. Con l'alcool anche l'idiota di turno sa essere divertente. È un buon metodo per insultare agratis una persona partendo già con la scusa in tasca. Come ho detto è un metodo, non una soluzione, perchè poi l'effetto passa.
Comunque, sta mattina ho deciso che potevo smetterla di piangermi addosso e potevo uscire per strada, rendermi produttivo, con quel senso capitalistico-borghese da voltastomaco. La sveglia mi ha consigliato che forse era venuto il momento, l'ho zittita e mi sono lanciato senza indugio al mondo. Guaio con l'aria frizzante del mattino ha un altro colorito. Meno nicotina da fumo passivo che gli propino, e più cucciolo con 200 culi di cagne davanti. I facili entusiasmi sono sempre il pane degli stolti, così nemmeno un secondo dopo aver odorato la merda di Guaio, alzo gli occhi ed eccolo li: il mio vecchio amico Marco. Non ho mai capito cosa ci sia così tanto da ridere da far adirittura sparire gli occhi, lasciando il mio sguardo farsi strada tra un paio di piercing da mangia pasticche poco rassicuranti.
"Come va vecchio mio?"
"Come vuoi che vada"
"Che piacere vederti"
Se potessi provare piacere solamente vedendo un vecchio amico probabilmente non avrei mai buttato l'agendina che usavo alle superiori. Le due chiacchiere di circostanza si stavano svolgendo secondo i normali canoni comunicativi. Occupazione, capodanno, salute, speranze per il nuovo anno?
"Nessuna" ho risposto secco.
Mi ha fatto piacere suscitargli una risata, quando faccio ridere qualcuno è sempre una rassicurazione. Il problema sta nell'aspettativa che poi il favore ti venga ricambiato. Non succede quasi mai, ma brucia sempre. A volte mi sento come una prostituta sobillata dal fiatone di un uomo troppo ubriaco che non si preoccupa mai di gratificare lo sforzo con un orgasmo.
"Che fai ora? Prendi un caffè?"
"In realtà devo riportare Guaio a casa, e il caffè evito di berlo che già sono nervoso di mio"
"Dai vieni che allora te ne offro uno"
Chiaramente la gente non ascolta. Marco mi ha seguito raccontandomi per filo e per segno tutto ciò che meno di interessante c'era al mondo: la sua vita. Mentre lo guardavo, immerso nell'atmosfera da pareti gialle di un bar imbucato del centro, capivo che dietro tutte quelle chiacchiere e voler apparire c'era un giovane perduto che voleva solo un po' di compagnia. Odio provare compassione, perchè poi finisce che mi sento in colpa pure per tutti i pensieri poco ortodossi che mi vengono sulle persone. Così in segno di scusa gli ho concesso un paio di minuti in più dell'usuale. Guardavo il bar, e in mezzo ai tavoli dei pensionati che facevano il punto della situazione, ho intravisto un vecchio solo appoggiato al bancone del bar. Beveva caffè corretto grappa alle 9:30 di mattina. Aveva le guance colorate di rosso, un cappello scapestrato in testa, e gli occhi bassi da cane bastonato. Marco parlava e io pensavo solamente che avrei voluto sedermi vicino a quel vecchio, fammi correggere il caffè con doppia grappa, e starmene li in silenzio al suo fianco. Non so se lui avrebbe aprezzato la mia intromissione, ma io avrei goduto della sua compagnia più che di quella di Marco.
Per fortuna che dopo il caffè la sigaretta è d'obbligo, così, sono riuscito a rimettermi in strada, respirando un po' di libertà. Quel bar dava claustrofobia. Ci ho messo un po' prima di deppistare Marco, continuavo a vederlo come una gomma da masticare troppo usata che non ti si stacca più dalle dita.
"Ci vediamo presto" dice
"Contaci" rispondo.